Il Covid ha ucciso Nino, il maggiore degli Aprile
Non sapevamo mai di cosa parlare mio fratello Nino, ucciso dal Covid, e io. Quasi tre anni più di me, lui, ma quei tre anni avevano segnato a vita la distanza incolmabile che scavano nei primi passi del cammino: lui a scuola, tu no; tu alle elementari, lui alle medie; tu alle medie, lui alle superiori; tu bambino, lui adolescente, lui con le ragazze, tu con il pallone… La nostra comitiva era fatta a due strati: i fratelli maggiori, e i pischelletti al seguito, che volevano fare i grandi, insieme a loro.
Lui, per passione e professione, uno dei maggiori tecnologi specializzato in qualità degli acciai, cosa che lo portava in giro per il mondo, a controllare e garantire, per conto di grandi committenti, la produzione di stabilimenti siderurgici; io che già a dodici anni mi ero rovinato la vista sui libri e li divoravo; lui che era capace di mettere mani dappertutto, smontare, aggiustare, modificare…, io che quando cercai di svitare la maschera subacquea mi infilai il cacciavite da una parte all’altra della mano, sfondandola.
Ci incontravamo di rado, a volte a distanza di anni (io giravo, ma lui di più e in Italia stava poco) e magari parlavamo del tempo. Nemmeno l’era dei messaggi cambiò la quantità e qualità della nostra comunicazione. Sapevamo di noi, e tanto bastava.
Io capii finalmente qualcosa di più del suo lavoro (che trovavo noiosissimo), quando mi raccontò di un episodio in Bielorussia, se non ricordo male: aveva bocciato il 95 per cento della commessa di tubi. Un disastro che poteva portare alla chiusura dello stabilimento. Gli operai circondarono l’hotel in cui lui era, intervennero i soldati. Lui scese a parlare con i lavoratori: non risolverete niente così. Qualunque cosa vogliate farmi, i vostri tubi resteranno inutilizzabili. Sono qui per migliorare il vostro lavoro e rendere il vostro acciaio commerciabile, se lavoreremo bene con voi e i vostri dirigenti. Lo ascoltarono e dopo circa sei mesi, più o meno (la memoria è quella che è), lui fece le valige per andarne; e cercarono di fermarlo. Devo fare la stessa cosa in uno stabilimento siderurgico in Brasile, voi non avete più il problema; i vostri colleghi lì, potrebbero aver bisogno, o forse no, del mio apporto.
Giuro che non avevo capito mai quanto fosse importante, difficile, anche politicamente, la sua professione.
E credo di sapere quando lui comprese il valore della mia: mettetevi nei suoi panni, ero uno che imbrattava carte, pure in giornali che si preoccupavano della calvizie di Caroline di Monaco e delle corna dei vip, non solo di essere i primi a intervistare Alì Agca in carcere.
Mi ero dimesso dalla direzione di Gente, e avevo completato un paio di libri lasciati appesi. Ero in un periodo pesante della mia vita: ritenevo per me inaccettabili (non dico: giuste, sbagliate; dico: non per me) delle condizioni per continuare a fare lì il mio lavoro. Ero disoccupato, mutui da pagare… Uno di quei libri era “Terroni”. Il successivo fu “Giù al Sud”, in cui racconto il Mezzogiorno migliore. Mio fratello, in giro per il mondo, usava chiedere vini, olio nostri, negli hotel, nei ristoranti. A suo modo, un altro… Aprile. Ci saremo scambiati due-tre email in tutta la vita. Credevo di aver perso quella che mi fece capire che anche per lui, per quanto mi riguardava, c’era stata una Bielorussa che mi aveva illuminato. Non che non capissimo che i nostri lavori fossero seri, ma eravamo stati, fin lì, reciprocamente superficiali, non cogliendone la portata. Nino si occupa di ferraglia, Pino imbratta carte. E ci campano. Invece… la Bielorussia; invece… “Giù al Sud”. Anno 2011:
“Ciao Pino,
ho cominciato a leggere il tuo ultimo libro ma prima ancora di completarlo ho sentito il bisogno di scriverti. Dovevo trasmetterti il mio stato d’animo. Mi sono commosso malgrado lo sforzo di evitarlo. Per pudore avrei voluto che lo sguardo perplesso della signora che mi sedeva a fianco in aereo finisse di scrutarmi.
Da “Terroni”, molto bello, ne ho tratto un gusto amaro. L’amaro di chi ha perso, di chi non ha più nemmeno la forza nemmeno di denunciare le angherie patite. Nel tuo ultimo libro, invece, hai tirato fuori l’anima della nostra gente. E’ una cosa enorme. Sono certo, faranno più i tuoi libri di quanto si potesse sperare da una rivoluzione.
Il tuo libro mia ha fatto vergognare. Mi inorgoglivo nel portare in giro per il mondo i valori della nostra terra ed a propagandare i nostri prodotti. Un orgoglio (adesso capisco davvero stupido e supponente) che nasceva dal semplice fatto che i ristoranti di cui ero cliente adesso si fanno venire vino ed olio. Oppure quando il direttore di una azienda Russa, mi scrisse “credevo che quando parlavi della tua terra esagerassi e per educazione non ti ho detto nulla ma poi sono venuto ho visto ed ho capito che ciò che mi avevi detto era forse soltanto un decimo della realtà”.
Dovrei dirti bravo, ma sarebbe banale e svilente. Credo sia più giusto dirti GRAZIE. Grazie per quello che stai facendo e per avermi fatto capire che si può essere orgogliosi ma per cose che hanno valore e non per le miserevoli cose che mi capita di fare. Sei tu che devi sentirti orgoglioso, stai facendo crescere la coscienza della nostra gente.
Ti abbraccio,
Nino”.
Ecco, per avere idea delle “cose miserevoli” che secondo lui faceva, pensate a quante migliaia di lavoratori, in giro per il mondo, ha salvato il posto di lavoro, a quanti ha ridato orgoglio, fierezza, serenità e futuro. Ma la misura l’ho avuta ascoltando i discorsi funebri di persone che non conoscevo, alla messa dopo il suo funerale (si fa per dire, nel vuoto e nella solitudine, pure da morti, del Covid): tutti, in pubblico e in privato, a dire le stesse cose: ci ha saputo guidare, consigliare, ci ha aiutati ad aver fiducia in noi stessi: come faremo senza la sua saggezza?
Non ci siamo mai presi reciprocamente sul serio. E quando ci siamo, come dire?, “scoperti” forse era tardi per spenderci troppe parole. Questo, con l’unico strumento che, nella mia insufficienza, riesco a manovrare, è il modo per dire che forse avremmo dovuto. E toccava a me, fratello minore.
Sono il più anziano degli Aprile in vita, ora. I migliori, come al solito, sono i primi ad andarsene.
Caro Maestro, sbagli quando affermi che eravate lontani in giro per il mondo e che non vi dicevate e scrivevate nulla. Eravate, invece, nel medesimo posto che non si misura in metri quadri, un unico cuore fraterno e quando si è così vicini non c’è motivo di parlare o scriversi perché basta solo un espressione degli occhi o un sospiro. Mi ha preso alla gola quel che hai scritto perché non ho fratelli ed oggi, a sessant’anni, avrei voluto averne. Come voi. Grazie per l’emozione. Grazie di cuore.
Grazie, Alfredo. Rispondo con estremo ritardo, perché mi erano sfuggiti dei messaggi. Il tributo al covid pagato dalal mia famiglia è stato alto: ho perso un fratello di sangue e un fratello adottivo