La brigante bambina tratta in forma di romanzo del
più controverso e mal raccontato periodo della storia
d’Italia: il Risorgimento, ovvero l’invasione del Regno
delle Due Sicilie per conquistarlo e annetterlo a quello
sabaudo e così far nascere, a mano armata, lo Stato
italiano. Non che gli altri siano nati meglio.
I libri di storia raccontano i fatti, ma quali e come,
lo decide, al solito, il vincitore, all’interno di un sistema
di potere nel quale trova più facilmente spazio e
ascolto chi lo asseconda. Riuscite a immaginare uno
storico turco che narri il genocidio degli armeni nelle
università del suo Paese? Rispettando le proporzioni,
non è diverso altrove, né lo è stato in Italia a riguardo
di ciò che accadde al Sud per unificarla. Il che si
traduce in educazione dei vinti all’accettazione della
sconfitta, al ruolo gregario “sancito dalla Storia”.
Nel riferire i fatti, pur se orientati, e nel valutarli,
i libri di storia trasmettono anche sentimenti, ma in
modo non dichiarato, indiretto, spesso inconsapevole,
perché da quei fatti si ostenta una distanza, ex cathedra,
che dovrebbe garantire obiettività. Ma è un inganno,
non sempre voluto.
I romanzi, invece, in modo palese, schierato, trasmettono
sentimenti nel riferire di vicende storiche
reali o che di quelle hanno i colori, i suoni, persino i
protagonisti, in alcuni casi, ma non necessariamente
molto più di questo. Eppure, spesso nel lettore si radica
come più vera “la storia appresa dal romanzo”,
proprio perché veicolata da un sentimento (è noto che
la memoria getta radici più profonde e stabili, se non
è “fredda”), rispetto a quella ufficiale, peraltro spesso
altrettanto artefatta.
Avendo il vincitore il dominio della comunicazione,
la versione dei vinti, ove non ugualmente soffocata
da un potere oppressivo, viene dall’arte (vedi Guernica
di Picasso), dalla musica (vedi Brigante se more, di Eugenio
Bennato), dalla letteratura (vedi La masseria delle
allodole di Antonia Arslan, sul genocidio degli armeni,
o L’eredità della priora di Carlo Alianello) e, soprattutto,
da quelle forme di racconto popolare in cui si cristallizzano
sentimenti e risentimenti (cantastorie, nenie,
filastrocche, teatro popolare, memorie familiari).
Non intendo fare una troppo lunga premessa, ma
questa mi pareva necessaria per dire delle mie ragioni,
e che quasi niente di questo romanzo è inventato:
sì, la coppia dei protagonisti e qualche altro personaggio,
e i dettagli, i colloqui, ma tutto il resto si rifà a vicende
reali, pur se adattate alle esigenze del racconto.
La deformazione più evidente e grande è quella dei
tempi: fatti accaduti in alcuni anni sono concentrati in
pochi mesi, quindi non necessariamente li troverete
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nella sequenza temporale in cui avvennero; la campagna
di conquista dei paesi lucani, per dire, condotta
da Crocco in primavera e ripetuta con Borjes in autunno,
qui compare, in sintesi, una volta sola; persone che
operarono in aree e tempi diversi compaiono insieme
negli stessi luoghi. I fatti, però, sono quelli: dall’infelice
spedizione del generale catalano, alla Pignatara
– che esistette davvero ed ebbe quel soprannome, per
quelle ragioni: si chiamava Elisabetta Blasucci – e alle
altre brigantesse citate, via via passando per le vittorie
brigantesche, l’inspiegata rinuncia di Potenza, le
battaglie perse, i tradimenti, le storie d’amore fra briganti
e brigantesse, la vicenda del Sergente Romano,
la mancata volontà di Crocco di trasformare le loro
formazioni in un esercito, la diabolica epopea del cacciatore
di briganti Tommaso La Cecilia, quella
di Domenico Palma, il Re della Montagna e la sua
incredibile beffa del teatro, la deportazione della popolazione
del Sud, le torture, i massacri del colonnello
Milon e del macellaio di terroni Pietro Fumel. Un
genocidio negato nei numeri e nelle intenzioni, che
riemerge a distanza di un secolo e mezzo, nonostante
le pur altissime denunce di tanti intellettuali e politici,
sin dai primi momenti, inclusi Garibaldi, Nino
Bixio in Parlamento, o il duca Proto di Maddaloni, il
filosofo milanese Giuseppe Ferrari, e tanti altri, sino
ad Antonio Gramsci, comunista, Angelo Manna, del
Movimento sociale, Carlo Alianello, Giordano Bruno
Guerri e Giuseppe Gangemi, per citare solo alcuni
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italiani, perché molto più facile è sapere della nostra
vera storia leggendo autori e storici stranieri, da quelli
contemporanei degli eventi, a quelli di oggi, fra cui
John Anthony Davis e Denis Mack Smith.
Riassumo: in questo libro, i fatti principali sono veri,
alcuni personaggi inventati, i tempi moltissimo accorciati.
Dolore e danni di quelle vicende condizionano
ancor oggi, in modo quasi sempre inconsapevole, la
vita degli italiani, non solo del Sud, e il destino del Paese,
che da quella guerra non fu unito, ma diviso.
Perché ogni volta che si parla dell'Italia duale si ignora il meglio del Sud e il peggio del Nord?