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SE DI MAIO SI SCOPRE “AUTONOMISTA VENETO”, COSA SUCCEDE AL SUD?/ di Pino Aprile

Forse è un bene che il Di Maio sia venuto fuori con tanta chiarezza sull’Autonomina del Veneto “prima possibile, senza se e senza ma”. Così sapremo chi sono i carnefici e gli ascari dell’estremo insulto e ultima rapina del Sud. “Prima possibile” vuol dire che si consentirà ai predatori padani di mettere le mani nella cassa comune, senza che si sia preventivamente stabilito il valore dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni uguali per tutti, che aspettano da 17 anni (“prima possibile, senza se e senza ma” non vale quando c’è il rischio che si riconoscano pari diritti ai colerosi di merda “che puzzano più dei cani”, al naso del socio di Giggino). Quindi, prima il diritto del Nord al saccheggio finale, poi (cioè mai) si vedrà quali servizi si possano eventualmente garantire al Sud (‘sta ceppa!), con il niente che resta. Il Sud è colonizzato, insultato, derubato e tradito da un secolo e mezzo; ma uno schifo come questo, da parte del leader del partito più votato dai meridionali e che ne han fatto il primo d’Italia, non si era mai visto.

Però, detto che è uno schifo, bisogna capire perché Di Maio lo fa; e nel momento peggiore della sua carriera politica che può andare a infrangersi contro la colonna infame che gli stanno costruendo i trombiettieri della “libera stampa con sensibilità orientata” o contro il muro della vergogna che si sta costruendo da solo a Sud, rimangiandosi tutti gli impegni presi.

Le accuse di incompetenza ai cinquestelle sono quasi sempre state strumentali (se non altro, perché venivano da gente che ha messo nei ministeri le Madia, le Fedeli, gli Alfano…: senti chi parla! Per non dire dei disastri compiuti dai presunti competenti). Ma la vicenda, su cui l’intero M5S (salvo alcuni che si potevano contare sulle dita di una mano) si è scoperto del tutto impreparato, come tutti gli altri politici e amministratori meridionali di ogni partito, è stata proprio il capitolo sull’Autonomia regionale “differenziata”, di cui non avevano capito niente (almeno si spera, ché il contrario sarebbe peggio) e niente sapevano (idem). E non solo loro: addirittura i presidenti delle Regioni del Sud cadevano dal pero, poi, informati, sono risaliti sul pero a far finta di niente.

Qual è il senso di questo improvviso Di Maio-autonomista-veneto? L’errore è pensare che voglia apparir leghista in terra di Lega, illudendosi di prevalere (non lo faccio così scemo da credere che fra i tanti ultraleghisti sperimentati a disposizione e un terrone che arriva lì e leghisteggia, i veneti lo preferiscano. Il M5S minoritario è al Nord e più lo diventa: l’originale vince sull’imitazione).

E allora? La macchina del fango che si è mossa contro di lui (per il dispari e vergognoso modo giornalistico di cui sopra) ne ha fatto “un’anatra zoppa”, come si dice negli Stati Uniti del presidente in scadenza, negli ultimi mesi. Accuse di lavoro nero per il ministro del lavoro (lascia perdere se gravi come dicono o no; se più o meno gravi di quelle rivolte ai Renzi e che non indignano) sono un danno serio: che resti o no a lui quel ministero, il guaio ormai è fatto. Ci si può interrogare su chi sia il regista di questa operazione (l’ala leghista e il centrodestra che vogliono tornare al governo senza M5S; Salvini che vuol distruggere l’alleato per erditarne i voti; il Pd che spera di riprendersi i transfughi cinquestelle…): qualunque sia l’ipotesi preferita, Di Maio oggi vale meno alla banca del potere. Il giorno dopo le elezioni era il “presidente del Consiglio”; poi è diventato “uno dei due vice”, ma quello con la fetta delle azioni più consistente (il 33 per cento), dinanzi al vice-2, Salvini (con il 17); terzo il (facente funzione) presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Poi, il vice-2 è diventato vice-1, spaziando a tutto campo come se il governo fosse solo suo e Conte non esistesse: abusivismo ministeriale sanato dai sondaggi che ora danno la Lega primo partito e in ascesa e il M5S secondo e in discesa. Nel frattempo, quatto quatto, Conte ha guadagnato livello, specie in campo internazionale e pure in casa, ponendosi qual capo saggio e pacato fra i due scalmanati. E Di Maio annaspa sempre più, con il bottino di voti del M5S in rancoroso calo a Sud, dopo le fregature dell’Ilva di Taranto, della Tap in Salento, del reddito di cittadinanza che si farà, ma poi, fra poco; i maldipancia dei parlamentari che, contestati dagli loro elettori, dissentono ed escono dall’aula per non votare le cose indigeribili che lui deve far passare nel gioco di conpromessi con Salvini…. Costretto a difendersi nel partito e adesso pure fuori, è un bersaglio. A questo punto, dovessero scegliere se tenersi Conte o lui, sia gli italiani in generale che i cinquestelle in particolare, potrebbero fargli una sorpresa.

Di Maio, sull’Autonomia, pur se in ritardo, aveva compreso come stanno davvero le cose e sa che corrisponde a una Secessione di fatto e una catastrofe economica e sociale per il Sud (chi vi parla di “fondi di compensazione solidale” vi prende in giro: lo dissero per i Lep, e stanno lì da 17 anni; lo scrissero per il federalismo “solidale” che corrispondeva, scoprimmo poi, alla solidarietà dei più poveri verso i più ricchi); e su questa faccenda, qualche paletto Giggino lo aveva messo nella corrispondenza di amorosi sensi con Salvini; il quale doveva, senza darlo a vedere, porre un freno all’ansia predatoria di Zaia (che imbarazza gli stessi leghisti, nel timore che per arraffare lui tutto e subito, la cosa finisca a schifio e restino tutti “con il cappello in mano”, ipse dixit). Però, indebolito nel Movimento e nel Paese, Di Maio potrebbe cercare sponda proprio nella Lega, nel suo rapporto privilegiato con loro. Il che acuirebbe la frattura sempre più palese nei cinquestelle.

Se vi sembra una lettura eccessiva, considerate che più cala Di Maio (apprezzato dai poteri del Nord), più si espongono, in concorrenza, Roberto Fico e Alessandro Dibattista: il primo ha un ruolo istituzionale che potrebbe renderlo “risorsa” nelle scelte del Quirinale, se necessarie; il secondo sta con il passaporto in mano per rientrare in Italia nel momento migliore. Per lui.

Che motivo ha Di Maio di anticipare l’Autonomia a dicembre, se tutto il resto viene spostato al 2019 o persino al 2020? E che fretta ha di andarlo a dire in Veneto, sapendo che l’annuncio sarebbe esploso come un tric-trac nel minuto di silenzio in attesa del nome del vincitore del grande fratello? A metà dicembre dovrebbe esserci una riunione dei cinquestelle a Roma, con Beppe Grillo. Cosa viene a fare? A erigere una diga contro lo sgretolamento della sua creatura? Di Maio rischia e potremmo assistere all’investitura di qualche altro leader? Per carità, tutte ipotesi. Ma qualcuna la si deve fare, perché di certo quell’incontro non è per gli auguri e buone feste (segnale trascurato: Grillo ha “avvertito” che alla Regione Lazio, i cinquestelle devono votare la sfiducia a Zingaretti).

Se Di Maio vede indebolito il cordone ombelicale con il Movimento, può rafforzare quello con la Lega e trarre più forza contrattuale dalla necessità di tenere in piedi il governo, con una legge finanziaria che sta insieme con i cerotti, il rapporto con l’Europa a rischio frattura e i numeri dell’economia (spread o non spread) da incubo.

E allora: “Autonomia del Veneto prima possibile, senza se e senza ma” (e fanculo il Sud che aspetta di sapere che fine fanno i Lep, per capire se fa ancora parte di questo Paese, sia pure solo a chiacchiere). Poi, attenti: i tempi dell’Autonomia, una volta proclamata, non è detto che siano rapidi come Zaia, ministra Stefani e altri presidenti leghisti di tessera (vedi Fontana, Lombardia) o leghisti di fatto, sull’Autonomia (vedi Bonaccini, centrosinistra, Emilia Romagna), consiglieri regionali Pd del Nord e Salvini si promettono.

Un passo avanti, comunque, rappresenta e soprattutto un passo avanti ai Lep, che così finiscono anche ufficialmente in secondo piano (cioè nel cestino).

Ma, come sempre, il diavolo è nei dettagli e quelli sono rivelatori: Di Maio ha motivato la sua uscita (di cui non sentivamo la mancanza e di cui sentiamo l’offesa) con il fatto che i veneti hanno votato, nel referendum, e quella volontà va rispettata. Me cojoni! Un referendum di cui si poteva far a meno, bastando, per la richiesta di Autonomia una letterina al governo; di tipo facoltativo e pure molto “orientato”, che non impegna a niente. Ma da cui non si può prescindere, dice Di Maio.

Il 4 marzo ci sono state elezioni politiche che impegnano eccome e da cui i partiti ricevono veri e propri mandati dai loro elettori. Mi domando chi cazzo abbiano votato i meridionali, per essere presi a calci in faccia, da allora (Ilva, Tap, Lep dispersi nelle nebbie venete…).

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