La prima (corposa) edizione de “L’Italia è finita” è andata esaurita in un mese. E la ristampa è già seriamente intaccata dopo due settimane. Ovviamente, la cosa mi fa piacere, per due ragioni, una ovvia, perché riguarda me; l’altra più importante, perché riguarda tutti.
Quando scrivi un libro, lo fai perché non riesci a tenerti dentro le cose (“Le parole non dette escono in nevrosi”, mi disse Josif Brodskij, il più giovane premio Nobel della Letteratura: una frase che cito spesso, perché vale anche nella vita, in famiglia, sul lavoro, nella società). E tutto il lavoro devi farlo senza sapere quale risultato otterrà:
1 – sono soldi da investire: sono un lettore vorace, curioso e insaziabile (forse per compensare qualche forma di insicurezza? O per procurarmi una specie di surrogato dei viaggi che non ho fatto, delle idee che non ho concepito, delle persone che non ho conosciuto, delle cose che avrei voluto studiare? Non so dire: o leggo o vado a farmi spiegare in analisi perché lo faccio così intensamente e mi sento perso se non ho un libro in tasca. Preferisco la prima scelta: dopotutto, i libri costano meno degli analisti). L’ultima volta che feci la stima dei libri che ho in casa, ero attorno agli 11mila; poi ho alleggerito la biblioteca regalandone qualche migliaio, mentre ne acquistavo altri (ma meno). Ora non so quanti ne ho. Quante auto avrei comprato (non ne possiedo; se servono, le noleggio); quante vacanze avrei fatto? Ma nel bene e nel male, quello che so e sono lo devo ai miei genitori, ad alcuni fantastici maestri e a questi miei tutori di carta;
2 – e poi li devi leggere, però! Infatti, la domanda che mi fa quasi sempre chi vede il mio studio: «Ma li hai letti tutti?». Alcuni più volte, in edizioni e traduzioni diverse (quelli “base”, per esempio: l’Odissea, che è il libro che amo di più e non mi sazia mai; la Bibbia, anche se sono ateo; “I dialoghi di Platone”; “I miti greci” di Graves…); altri letti intensamente, a volte una pagina, due al giorno, magari passando quello seguente a rifletterci e annotare spunti, mentre leggevi altro, perché la nostra capacità di apprendere varia durante il giorno e così devono variare le nostre letture: inutile spreco un testo impegnativo dopo pranzo, per dire. E questi libri “intensi” sono tantissimi, non so da dove cominciare: da “Massa e potere” di Canetti, a “La mente del viaggiatore”, di Leed, dal “Capitale” di Marx al “Capitale del XXI secolo” di Picketty; da “101 storie zen” a “L’universo elegante” di Green, da “L’interpretazione dei sogni” di Freud a “Gilgamesh”, da “Paranoia” di Zoja a “Armi acciaio e malattie” di Diamond, da “La matematica delle civiltà arcaiche” a “Origami facile”, che mi consentono ancor oggi di intrattenere i bambini facendo vedere come gli egizi riducevano le moltiplicazioni a un esercizio fatto con le sole dita delle mani, o riproducendo con un foglio di carta le figure ideate dal grande maestro Akira Yoshizawa; per non dire della miriade di libri di mare e vela su cui mi sono addormentato per anni, da “Solo intorno al mondo”, di Slocum e “Vent’anni di Mediterraneo” di Schildt, all’immenso, divino “Breviario Mediterraneo” del mio amico Matvejevic o “Memorie del Mediterraneo” di Braudel; e salto la letteratura, che tanto bene e tanto male mi ha fatto, perché dall’eccesso di lettura in troppo poco tempo ricavai una forma di alienazione di cui mi accorsi tardi, verso i vent’anni. Avevo perso i contatti della realtà, che vivevo trasfigurata in senso letterario. Come dire che non abitavo in questo mondo, ma in uno “descritto”. Se vi sembra poetico, sappiate che ne porto ancora i segni e non sono piacevoli e da quasi mezzo secolo si può dire che non leggo più romanzi, se non quelli che “devo”, e li leggo con diffidenza, salvo pochissimi, tipo “Fontamara” o “La Storia” della Morante);
3 – e poi il tempo per investigare su quello che vuoi scrivere, i viaggi per le interviste, la conoscenza dei luoghi. È quello che ho sempre voluto fare, non mi sto lamentando. Ma se diventa lavoro, non vuoi sbagliare e ti tramuti nel peggior capo che potresti mai avere: te stesso. A volte si è spietati con se stessi. Ci sono stati dei libri che mi hanno segnato, anche nella salute. Nessuno come “Carnefici”, poi “Terroni”, che ho tirato avanti per trent’anni e continuavo a riscrivere e ora “L’Italia è finita”.
E poi…, e poi, magari, non gliene frega niente a nessuno. Può succedere. Ero convinto che il mio libro che avrebbe avuto la risposta più ampia, per il taglio di riflessione sulla cronaca, sarebbe stato “Trionfo dell’apparenza”: è quello che ha venduto meno in assoluto, lontanissimo da tutti gli altri. Per “Terroni”, avevo previsto un dignitoso atto di presenza (con tutti i libri in uscita per i 150 anni dell’Unità…!); la stessa casa editrice pensava fosse un testo che conveniva pubblicare, ma senza aspettarsi sfracelli in quella selva di titoli annunciati per l’occasione. Invece è stato il libro che ha polverizzato una quantità di record che mi astengo dal citare.
Sono creature strane i libri, al tempo stesso fragilissimi e indistruttibili, se ancora oggi ci illuminano la mente e ci scaldano il cuore pagine scritte millenni fa. Ogni volta che mi sono sentito solo, c’è stato un libro che mi ha detto che non lo ero; ogni volta che mi sono sentito perso, c’è stato un libro che mi ha fatto capire che si può ricominciare.
Ma chi li scrive si rivolge agli altri. La risposta che ne ha è valutata sempre in senso commerciale (una fiaba da sfatare: non si campa di libri, in Italia; se vanno bene, sono un buon aiuto, avendo già di che vivere. Ma saranno una mezza dozzina, meno di dieci quelli che possono campare di soli libri, non facendo altro). La vera risposta, per uno scrittore, invece, è quel legame che si crea con chi legge (il più bel complimento è: «Hai scritto quello che volevo scrivere io, ma non trovavo le parole»). Ogni libro genera un popolo che riconosce qualcosa di sé, in quelle pagine, vi avverte consonanza con l’autore e con gli altri lettori. I libri sono come una piazza che accoglie quanti hanno qualcosa in comune; e pure chi odia quella piazza, quella gente, quei libri e gli autori (fate un giro sul web e vedete di quale ferocia, insulti, calunnie si diviene bersaglio, da parte di chi cerca la propria misura nella dimensione di quanto riesce a infangare e distruggere, non a creare).
Ogni autore è parte di quel popolo. È come fosse incaricato di accendere la luce in una stanza, e grazie a quel gesto chi c’è dentro scopre che non era solo.
Quando un libro viene pubblicato, spingi l’interruttore; e scoprirti insieme a tanti (te lo dicono le copie, c’è niente da fare), ti conferma che quella sintonia c’è. Il dialogo continua.
Ma quello che più mi conforta del buon andamento di “l’Italia è finita” è la ragione per cui ne vedevo più incerto l’esito: affronta un tema difficile, che proietta il passato e l’oggi nel futuro, per capire cosa ci succede e cosa può succedere ai nostri figli e nipoti o sta già succedendo, ma sui cui sviluppi ci si interroga poco.
L’Italia fu laboratorio mondiale e nel sangue, della nascita degli Stati nazionali necessari alla civiltà industriale; ora lo è per la disgregazione degli Stati nazionali, utile alla civiltà informatica. Quello che teneva insieme il Paese (che unito non è stato mai, con una parte sottomessa e ridotta a colonia e una che cresce con le risorse di tutti) era un equilibrio planetario in un mondo diviso in due blocchi: l’Italia era al confine fra i due, strategica per la geografica; aveva una economia fra le più attive (era la quinta), il maggior partito comunista dell’Occidente e la sede del Papato, guida della più diffusa religione monoteistica.
Oggi tutto questo non vale più niente e la divisione del Paese appare in tutta la sua gravità. Non è facile parlare di questi temi. Ma la risposta dei lettori mi dice che sono molto sentiti, che forse non è vero che siamo così distratti sul futuro e confusi sul presente. E addirittura tanti non si limitano a leggere, ma regalano un libro che non è proprio una leggera strenna natalizia, perché pensano che le feste devono distrarci, ma anche far riflettere. E questa è una buona notizia.
Vedete quante cose, non propriamente superfiali, ci sono dietro quella che pare una informazione commerciale, pur positiva? Grazie a voi tutti. Pensavamo la prima edizione bastasse sino a gennaio-febbraio; approdata in libreria a fine ottobre, nella seconda metà di novembre è stato necessario andare in ristampa.
Don Paolo Capobianco, di Gaeta, lo diceva per altro, ma vale anche per questo: «Siamo tanti, ma non lo sappiamo». Un libro ci aiuta a scoprirlo.
Grazie ancora e buone feste. Per il 2019 ho in serbo una sorpresa. Ma ne parliamo un’altra volta.