La possibilità che Matteo Renzi riesca a fare lo stesso il patatrac c’è, nonostante la pazienza del capo del governo, Giuseppe Conte e del segretario del Pd, Nicola Zingaretti; e i paletti (data del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari e altri obblighi istituzionali) posti dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Renzi ha già ampiamente dimostrato che lui ha un solo fine (personale): essere “al capo”, non importa di cosa, anche dei resti di un Paese da lui ridotto in macerie (quello che già non è stato sfasciato da altri e da lui stesso), se sulle macerie comanda lui; il che coincide con l’interesse di poteri non nazionali, che trarrebbero grandi vantaggi dall’Italia in pezzi, per spartirsela meglio e comprarla a prezzi di saldo (vedi cos’ha fatto la Germania alla Grecia, usando l’Unione Europea succuba e complice). Ma al servizio, cosciente e colpevole, o di fatto (non sappiamo), di quei poteri non opera soltanto lo sfasciacarrozze di Rignano sull’Arno.
Appena formata la maggioranza da cui è nato questo governo, Renzi si è tirato fuori dal Pd con i suoi cari, per far parte del governo, facendo anche opposizione e, secondo lui, essere il padrone di fatto dell’esecutivo, minacciandone continuamente la caduta.
Ma deve aver sbagliato qualche conto, perché forse pensava di portarsi appresso una fetta più larga del Pd, da sommare alle carovane di fuoruscenti dal M5S in dissoluzione e a quelli di Forza Italia in estinzione proporzionale alla decadenza fisica del padrone del partito. Insomma: una sorta di rigenerata Democrazia cristiana che avrebbe potuto calamitare verso il centro (vabbè…) anche esponenti moderati di destra a disagio fra nazi-fascisti e razzisti della Lega o in Fratelli d’Italia.
Sulla carta, diabolico piano che non dispiacerebbe a certi ambienti vaticani, confindustriali e del Nord (rassicurati dalla ferocia con cui il governo Renzi massacrò il Mezzogiorno, con devastante uso di Graziano Delrio, Luigi Marattin e altri pretoriani del Pd padano in concorrenza con la Lega). Ma quel che è perfetto sulla carta, nei salotti o in incontri “clandestini” in case compiacenti o parentali, non ingrana fuori da quelle mura. E il micro napoleone di borgo tre case sull’Arno ha un problema: il rischio di non raggiungere manco il 4 per cento di voti di sbarramento per partiti che si presentino da soli alle elezioni, il che genera pulsioni di fuga dalla zattera di Italia Viva, che da grande voleva essere un transatlantico.
Immaginate le battute che farebbero sullo stratega dello strapuntino, al paesello suo sull’Arno, dove son caustici. Questo dovrebbe confermare che allo sfasciasempre-sfasciatutto non conviene andare alle elezioni, ma solo minacciarle. A meno che…, a meno che dall’incontro fra lui e l’altro Matteo non sia scaturito un accordo che somma ambizioni e interessi di entrambi: Renzi tiene il governo sulla corda, in modo che quando fosse il momento, basterebbe una spintarella per buttarlo giù; e demolisce il Pd come può, sperando di incamerarne qualche scheggia (ormai è ridotto a raccattare resti sotto i tavoli). E se si andasse al voto, la Lega di Salvini potrebbe supportare Renzi assicurandogli quel che mancasse per superare la quota del 4 per cento. A garantire un tale accordo, chi meglio di Denis Verdini, che già tenne in piedi il governo Renzi, racimolando la qualunque, ed è suocero di Salvini? E a casa del quale, nonostante le smentite di almeno un Matteo (Renzi), i due si sarebbero incontrati, secondo credibili conferme.
Così, ovunque ci sia un centrosinistra da distruggere, la pattuglia renziana fa (casualmente, si capisce, non vorrete mica malignare!) il lavoro sporco per Salvini: dalla guerriglia contro il governo (Italia Viva, Mors Tua), alla minacciata presentazione di liste di disturbo che possano far perdere, alle regionali, lo schieramento di cui Italia Viva, in apparenza, fa parte. Una sintesi del cinismo renziano? La ministra Teresa Bellanova all’Agricoltura, arma del suo sponsor di Qualcosa sull’Arno contro il Sud e le sue produzioni, svendute agli interessi delle multinazionali e del Nord (né più, né meno, che i Luigi Zaia, i Gian Marco Centinaio). Una che è stata bracciante agricola, come Peppino Di Vittorio, recita la virtuosa biografia che si fa circolare. Dimenticando che erano tali anche i mazzieri che spaccavano teste di braccianti, al servizio dei latifondisti.
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