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“PALAZZINA LAF” DI MICHELE RIONDINO E LA RINASCITA DI TARANTO

Ci vuole coraggio per fare un film come “Palazzina Laf”, prima regia di Michele Riondino. Se non lo si segue con attenzione, può apparire quasi irreale, forse incomprensibile fuori dall’ombra delle ciminiere dello stabilimento siderurgico di Taranto, fra cui la più grande d’Europa, a ridosso del quartiere Tamburi. Eppure, quella vicenda è l’affresco e la sintesi del potere, della cultura, dei valori di un’epoca di cui siamo contemporanei, e che ciò nonostante è già declinata al passato: la civiltà industriale, con le liturgie della “classe operaia”, “le scelte padronali”, i rapporti personali e la vita stessa della città calibrati su quelli della fabbrica. Provate a immaginarlo con i sottotitoli, recitato in polacco, in francese o in qualsiasi altra lingua. E vi dicessero che in realtà è stato girato trent’anni fa: cambierebbe qualcosa?
Questo film è casa mia (sono tarantino, mio fratello, i miei amici lavoravano tutti lì; qualcuno ci è morto), ma non ha veramente luogo e non ha tempo, a parte la casualità di essere stato realizzato lì e adesso. Piaccia o no (è tempo di grandi fratelli e isole di aspiranti o ex famosi), è innegabile che rappresenti una grande prova di quello che tutti sappiamo e molti dimenticano e che è stato detto benissimo da altri: “Se vuoi essere davvero universale, parla del tuo paese”.

Pensateci, mentre l’Italia si immiserisce nella peggiore classe politica di sempre, nella più servile stampa di sempre, nella più corrotta e inadeguata classe dirigente di sempre, il cinema ci offre, contemporaneamente, tre film di livello e profondità: uno sui rapporti di potere nelle fabbriche; uno (finalmente!) sulle truffe delle banche a danno di piccoli risparmiatori; uno sulla disparità di genere normale ieri, tuttora insanata oggi. Laf è un acronimo, sta per Laminatoio a freddo, edificio ormai in disuso, in cui furono racchiusi decine di dipendenti con competenze e incarichi di rilievo, per essere psicologicamente demoliti da una forzata inazione. Lo scopo dell’azienda, non potendo licenziarli, era indurli ad accettare la retrocessione a operai o andarsene. Quelle persone dovevano sentirsi inutili, come l’edificio ormai privato di funzione. L’homo sapiens è un animale sociale, significa che il valore di ognuno è dato dagli altri, quindi dal ruolo che si ricopre. Se ti tolgo quello, ti svuoto: tu sai di avere e aver fatto quanto ti si richiedeva per quella dignità, ma non ti viene più riconosciuta. Sei “fuori”. Da un giorno all’altro è come se nessuno capisse più la tua lingua: è la stessa di ieri, con gli stessi interlocutori, ma sei diventato estraneo.
Un braccio di ferro condotto con la complicità di fatto dei sindacati nazionali che tacquero sulla Palazzina Laf, e con tutte le armi del potere: corruzione, tradimento, inganno, e si conclude con la sottomissione o la fuga. È la storia di sempre e di ovunque. Ma raccontata con i caratteri forti, le piccole miserie e le contraddizioni della gente comune, dove il bene e il male, il giusto e lo sbagliato si confondono, ti confondono, tutto si riduce a cose minime. Cercateli i grandi principi nelle spicciole convenienze di Caterino, nelle regole miserabili di Basile che o fa quello o è come gli altri senza peso. Non è la vita frustare o essere frustati? E tu vuoi essere frustato insieme ai tuoi o frustarli conto terzi?
Scusate, potrà sembrarvi che stia spremendolo troppo questo “Palazzina Laf”, ma io conoscevo quel mondo, pur se “da fuori”, dal balcone di casa mia e non riuscivo a entusiasmarmi per quel gigante, “U sidellurgec”. Perdevo la vista sui libri, la testa per aria, a vent’anni, nel quotidiano della mia regione, già facevo il giornalista e fu in seguito a una mia inchiesta sulle polveri dell’acciaieria che eressero quelle tristi collinette fra la fabbrica e il mio quartiere, con alberi condannati a sorbirsi la monnezza volatile. Sulla Palazzina Laf, l’azienda fu sconfitta. Quella vittoria andava raccontata: una battaglia vinta in una guerra finora persa, ma a un prezzo che lasciò i segni. E nel film si vedono. La magistratura ha fatto un lavoro strepitoso a Taranto, grazie al coraggio di pochi che non cedettero. La storia avrebbe potuto essere raccontata con toni epici, invece è didascalica, rasoterra, nel meschino orgoglio di una Panda aziendale scatrasciata “che è come fosse mia, ci devo solo mettere la benzina”.
Il giudizio che traspare è terribile sulla vittoria della Palazzina Laf, triste più di una sconfitta: le vittime che hanno saputo resistere e vincere sanno che l’azienda può pure perdere le battaglie senza perdere niente e loro possono pure vincerle, ma restano sconfitti, perché soli. Questa è la principale ragione, credo, per cui questo film resterà nel tempo, anche oltre le intenzioni dei suoi stessi autori (le opere dicono più di chi le genera): “Palazzina Laf” è il canto del cigno di una stagione e di una cultura. Per farmi capire meglio, vi invito a pensare, nuovamente, a cosa vi avremmo visto se fosse stato fatto 30-40 anni fa: grandi scene di masse operaie, bandiere e chiavi inglesi, tute blu e il passo di un mondo che vuole esistere dicendo la sua. Nulla del genere in “Palazzina Laf”. Persino la scena della protesta sindacale è scarna, poca roba, con Caterino che vi si trova implicato per sbaglio. Fatemi insistere, perché voglio essere chiaro: “Palazzina Laf” è il simmetrico e opposto del “Quarto Stato”, il dipinto-icona di Pellizza da Volpedo: quel quadro narra di un futuro che stentava a nascere, ma di un’idea e un progetto comune, condiviso, che trasformava i singoli in “classe”; il film narra di un passato che stenta a far accettare l’idea che è già morto, con una “classe” che si sgretola nei minuscoli interessi dei singoli. Sempre naufraghi, ma “Il Quarto Stato” è la scialuppa del capitano Blight, che riesce a coprire 3.600 miglia in oceano (impresa rimasta imbattuta nella storia) e a portare in salvo i suoi diciotto uomini, che restarono “gruppo”; “Palazzina Laf” è “La Zattera della Meduse”, su cui in 150 si scannarono ognuno per salvare se stesso, e sopravvissero in sei. La Palazzina Laf rimase la guerra di pochi; e la città non si vede, nel film, perché la vicenda dei singoli prevale su quella collettiva. E sto dicendo la parte per il tutto (per questo il tuo paese è universale). Sì, certo, la città poi si vide, ma al Primo Maggio, e anche lì trovi Riondino, Diodato e l’operaio e sindacalista Battista che ebbe coraggio e rigore, pagando di persona. Ma la città non c’era con i relegati nella Palazzina: né prima, né durante, né dopo.
Sì, il giudizio è terribile: Taranto è una città bellissima. Ma nel film non si vede. Non c’è. La Palazzina Laf sembra un film-denuncia sull’assenza dei tarantini. Che, per rinascere come comunità, ripartono dal recupero della città vecchia, del Mar Piccolo, dal Museo, persino dalle radici spartane, dalle cozze, da tutto quello che è Taranto, escludendo la fabbrica che, “non se n’era accorta, andava producendo ed era morta”.

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