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MIA RIPOSTA, SU DAGOSPIA, A “SUD INVISIOSO DEI LOMBARDI PRIMI DELLA CLASSE”

È un fenomeno culturale interessante l’incapacità, persino di alcuni dei migliori esponenti della classe dirigente lombarda (quindi, per non offendere i Ferruccio de Bortoli, non c’entra la robaccia da rivista del Ku Klux Klan dei Feltri Vittorio e consimili; o la schifezza televisiva da bar sport leghista dei Del Debbio e consimili), di capire perché l’opinione pubblica nazionale stia rivedendo, alla luce dei disastri e degli scandali della gestione dell’epidemia di covid-19, lo stereotipo del Nord efficiente, “locomotiva” e onesto (pare ci credano davvero, nonostante retate da decine e centinaia di arresti per l’Expo, l’interminabile sequenza di appalti truccati e carcerati eccellenti della Sanità “migliore d’Italia” e delle “grandi opere”). Per essere più precisi, il Nord si riduce alla Lombardia, per il declino del Piemonte, finito in fondo alla classifica (ingrata Italia, lamenta Aldo Cazzullo, mentre al Sud, dopo 159 anni, non hanno ancora finito di contare i morti e i deportati, per i quali essere grati) e l’imbarazzante paragone, per i lombardi, con il Veneto che, pur investito dalla stessa bufera epidemica, ne è uscito molto prima e molto meglio.

“Locomotiva” è la citazione della quota lombarda del prodotto nazionale lordo. Ma si omette di citare quanto di quello si deve a investimenti pubblici concentrati lì a produrre superfluo, sottraendo il necessario a due terzi del Paese (Sud e aree interne), condannate al rango di terre non-europee, per servizi e infrastrutture, e incolpate della privazione di diritti di cui sono vittime); “locomotiva” che si è venduto tutto, dai gioielli (grandi società, grattacieli, fabbriche, maison dell’italian style) ai giocattoli (le squadre di calcio), e mantiene il suo livello di vita grazie ai trasferimenti di risorse pubbliche destinate al Sud e dirottate al Nord: almeno 61-62 miliardi all’anno, stando a quanto documenta l’ente statale dei Conti Pubblici Territoriali (significa rubare al Sud circa dieci ponti sullo Stretto di Messina all’anno); e che in 15 anni, 2000-2015, è stata capace di “trainare” il Paese, unico nel continente, a una crescita di zero-zero virgola, mentre le medie del resto d’Europa vanno dal 18 al 38 per cento (zona euro-zona non euro).

Interessante pure il modo in cui la classe dirigente lombarda mira a banalizzare (trasformandola ancora una volta in una colpa terrona) la sua caduta dal podio di “regione che fa grande l’Italia nel mondo” (ovvero di regione che l’Italia fa grande nel mondo, dotandola di risorse e servizi che nega alle altre): il disconoscimento della primazia lombarda (“Prima il Nord” o “prima i bianchi”, la pretesa è la stessa: razzista) sarebbe un malanimo dei meridionali che coglierebbero la situazione di debolezza della regione devastata dal virus, per manifestare la loro “invidia per i primi della classe“ (aridaje!) e mancanza di solidarietà.

È un modo subdolo per non riconoscere il proprio fallimento, tale già da un bel po’, ma nascosto dietro l’illusione ottica dei soldi che girano, perché requisiti al resto del Paese. È stato il Los Angeles Times a parlare di “tempesta perfetta: il disastro del virus in Lombardia è una lezione per il mondo” e quegli errori commessi “saranno studiati per anni”; è stato lo spagnolo El Pais a scrivere: “il virus inverte i ruoli storici del Nord e del Sud d’Italia”, a proposito della più efficiente risposta meridionale al morbo; sono state le tv anglosassoni a documentare l’eccelenza degli ospedali di Napoli; è stato il quotidiano francese Le Monde a dedicare un inserto di quattro pagine, con il titolo: “Lombardia: autopsia di un disastro”.

Cosa c’entrano i terroni? Sono stati i tedeschi, gli austriaci, i greci e quasi tutti gli altri Paesi europei a escludere l’Italia dai loro flussi turistici, per via della Lombardia e del Nord-Ovest ancora troppo infestati dal virus; è stato il presidente della Liguria, Giovanni Toti, a protestare per l’esodo incontrollato di lombardi a rischio morbo nelle seconde case liguri; sono stati imprenditori turistici della Versilia a dire che i lombardi non li vogliono, per non rischiare di compromettere la stagione già danneggiata; è stato il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, a dire che se al posto della Lombardia ci fosse stata una regione del Sud, l’avrebbero tenuta blindata e commissariata. E quanto a solidarietà, migliaia di infermieri e medici meridionali si sono offerti volontari per aiutare la Lombardia e i malati gravi lombradi sono stati ospitati e guariti negli ospedali del Sud, mentre il Veneto non ha offerto un operatore sanitario, né un posto letto di terapia intensiva, pur avendone il 60 per cento vuoti.

Che c’entrano i terroni? C’entrano, perché “anche” i meridionali hanno criticato la disastrosa gestione lombarda dell’epidemia. E i giornali del Nord, i politici del Nord, la classe dirigente e tanti intellettuali del Nord (quoque tu, Ferrucce!) tacciono su tutto il resto e riducono la figuraccia alla presunta “invidia” dei meridionali per chi è più bravo di loro (sì? Vogliamo parlare dell’ospedale-covid costruito a Napoli con 7 milioni in 30 ore “e 45 secondi”, 72 posti letto, e della sceneggiata di quello della Fiera di Milano, costato da 21 milioni a forse il doppio, inaugurato finito dopo due settimane, ma finito dopo altre due, per tre posti letto, poi faticosamente portati a una dozzina, forse 20?).

Ancora una volta, la Lombardia (e il Nord in generale) trasforma una propria debolezza in colpa dei terroni: se fallisce come “locomotiva” è per la palla al piede, il Sud, che dice di “mantenere” (“residuo fiscale”: quoque tu, Ferrucce!), mentre gli sottrae decine di miliardi all’anno; se si rivela un disastro nella gestione l’epidemia, colpa dei terroni è mostrarsi più efficienti (lo scrivono in tutto il mondo, meno che i giornali del Nord, in Italia), per “invidia dei primi della classe” (un modo per rimettersi in testa, quando ci si scopre ultimi, dopo il Veneto, il Sud e e tutti gli altri).

Ora, a parte che, fosse pur vero, il malanimo terrone, sarebbe ampiamente giustificato quale ritorsione per decenni di insulti, discriminazioni, razzismo padano contro i meridionali. E che la classe dirigente del Nord, specie lombarda, ha aizzato, tollerato, minimizzato e di fatto condiviso, tanto che uno dei giornali più rappresentativi dello spirito padano, fallita la razzistissima Padania, è il portavoce del Feltri-pensiero (parola grossa), quanto di più anti-meridionale ci sia (“sono inferiori”). La fine di un popolo si misura con un sentimento-termometro: la vergogna, il guardiano delle norme della convivenza. Sparita quella, c’è solo una indistinta massa umana che non riconosce ad altri la stessa dignità, gli stessi diritti, lo stesso rispetto. I Feltri, i capi partito con condanna per razzismo che fa curriculum sono la prova di questa dissoluzione delle basi di convivenza. Interventi pur più sfumati nella sostanza e civili nella forma, quale quello di de Bortoli, a me paiono persino più rivelatori, perché mostrano che i veleni di quel sentire sono entrati nel dialogo e nei temi dell’area moderata; quindi sono “culturalmente” dominanti, rappresentativi di una comune, diffusa convinzione.

Il che spiega quel misto di sorpresa e sconcerto, persino contenuta irritazione (o spudorata, vedi Feltri: «Senza di noi farete una brutta fine, meritata») di chi vede violato un dogma, la certezza fondante della propria identità: siamo noi, i migliori per autodefinizione, a decidere la classifica e a porre tutti gli altri in quell’ordine “naturale delle cose” che va da “Prima il Nord” a “terroni di merda” (i più costumati, invece: «Non sono razzista, figurati. La mia cameriera è di Molfetta, ho un operaio di Trapani, il mio compagno di bocce è napoletano. Brava gente, ma non sono come noi»).

Stupisce il loro risentito stupore dinanzi a critiche più che motivate (che non accettano, perché non abituati a esser giudicati, ma a giudicare) e che vengono declassate a invidia per il primo della classe; invidia per la Sua Eccellenza la Sanità lombarda, patrona dei privati allevati a dismisura con soldi pubblici (e alla prova del virus letteralmente franata, al contrario di quelle veneta, emiliana, meridionale). Quel risentito stupore denuncia la natura del rapporto squilibrato: se noi vi insultiamo, è espressione di un sentimento popolare e diffuso di insofferenza per le vostre colpe; se voi osate discutere la nostra primazia, persino quando tutto il mondo e il resto d’Italia la contestano, la cosa ci risulta intollerabile, una sorta di aggressione. Il Nord ha paura, perché il Sud non accetta più la condizione di sudditanza: si mette alla pari! Si incrina la base del sistema di potere coloniale su cui si regge l’economia del Nord, dall’Unità (trasferimento selvaggio di risorse da Sud a Nord) a oggi (trasferimento selvaggio di risorse da Sud a Nord): una economia che genera una politica, su cui fiorisce una cultura. Se prima questo avveniva in forme sfumate, non immediatamente riconoscibili, oggi, con la consapevolezza sempre più diffusa, a Sud, di come stanno davvero le cose e con la fine, nell’euro, del controllo della propria moneta, senza l’elasticità della svalutazione, il gioco si è fatto scoperto: il razzismo si mostra senza sfumature e il sistema si è arroccato.

Yanis Varoufakis, in “Adulti nella stanza”, narra la domanda che gli fece l’allora segretario di Stato degli Stati Uniti, Larry Summers, quando il docente greco fu eletto al Parlamento, poi ministro alle Finanze nel momento più buio del suo Paese: «Ci sono due specie di politici, quelli che “giocano dentro” e quelli che “giocano fuori”. Tu come giochi?». Giocare dentro vuol dire essere garantiti ma complici; giocare fuori sono liberi, ma inascoltati.

Quando il blocco di potere padano si sentiva forte, poteva permettersi il lusso di avere Pasolini a fargli il controcanto sulla prima pagina del Corriere della sera; oggi non si legge un economista, uno storico fuori dal coro “noi locomotiva, voi terroni mantenuti” (i Viesti, i Sales, i Daniele, eccetera, tutti esclusi) e se il ministro Peppe Provenzano dice una coraggiosa banalità («Milano prende e non restituisce») si alzano le barricate giornalistiche e non si spiega la verità di quella frase; i documenti truccati per rubare risorse al Sud si possono leggere in alcuni libri, rimbalzati su qualche giornale al Sud, vedere a Report, ma non sporcano le “macchine del consenso” del potere padano. Le colpe degli intellettuali del consenso (alcuni per ignoranza, in buona fede; altri, sapendo, per convenienza e viltà), sono di portata storica in questa miserabile stagione di allevamento di una classe dirigente razzista.

Tale lettura suona troppo terrona, di parte, esagerata, ai sostenitori di quel sistema? Basterebbero le analisi e i documenti dello Svimez, dell’Eurispes), volendo capire. È la chiusura al dubbio e alla possibilità di riconoscere sbagliato quel che si crede di sapere la ragione prima della mancata conoscenza reciproca degli italiani, del pregiudizio, del razzismo, inutilmente denunciato da oltre un secolo, da Ciccotti e Gramsci a oggi. Una chiusura troppo spesso sospetta: non conviene, si campa male “fuori”. Ma, alla fine, anche il virus, come è stato detto, può essere il pettine che mostra i nodi.

Il risentito stupore alla pretesa terrona della parità, anche di giudizio dei fatti, disorienta il “prima il Nord”, il lombardo presunto “trainante” incapace di accettare equiparazione ai presunti “trainati”. Se dallo stupore e dalla stizza per la lesa maestà derivasse anche un interrogarsi su se stessi (parlo per quelli in buona fede, e de Bortoli lo considero tale), forse si farebbe in tempo a diventare un popolo. Altrimenti, la frattura già conclamata diverrà insanabile. O equità, o secessione. “Prima io” è razzismo; e quel tempo è finito: se non alla pari, meglio da soli.

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