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L’ITALIA MUORE PER ABBANDONO DEL SUD

L’ITALIA MUORE DI MANCANZA DI SUD
di Pino Aprile
L’Italia muore di mancanza di Sud. E siccome gli dei acciecano quelli che vogliono perdere, i folli credono che il problema sia la presenza di troppo Sud: come se uno nel deserto buttasse la riserva di acqua, per essere più leggero e arrivare prima all’oasi, dove, finalmente, c’è l’acqua.
Non ricordo se è dopo il terzo o quarto rimbalzo contro le sponde del bigliardo o altre bocce che il calcolo della traiettoria del boccino diviene impossibile, perché bisognerebbe includere nella valutazione delle forze coinvolte, anche l’attrazione gravitazionale della nostra galassia e quelle intorno.
Eppure, chi fosse incaricato di studiare la direzione del boccino avrebbe un compito più facile, rispetto a quello di chi tenta di capire dove va a sbattere adesso l’Italia. Tecnicamente pare facile: centrodestra ricompattato (‘overo? Fino a quando?); Forza Italia in dissoluzione (si disgrega insieme al corpo del padrone); Fratelli d’Italia abbraccia i due ex più grandi rimpiccioliti, che ricambiano, ma nella manica del braccio dietro la schiena della Meloni nascondono un coltello; il Pd resta a fare, ufficialmente, il partito delle istituzioni (di cui si alimenta), mentre agisce come e peggio degli altri (vedi Bonaccini con Zaia e razzismo leghista e Letta peggio della Lega sull’Autonomia differenziata in Veneto); i cinquestelle in cerca della frattura che consenta ulteriori frantumazioni, per scoprire in quanti pezzi si può dividere il nulla; i partitini dei Calenda et similia in frenetica mobilità da un lato all’altro del biliardo, nella speranza del colpo di fortuna che li faccia diventare, da scartine, carichi da undici. L’ampiezza di visione di cotanti duci non va oltre la punta delle loro scarpe, la linea dell’orizzonte la toccano con la punta del naso.
La crisi che si sta consumando in Italia è di sistema, non politica; si chiama “Il Paese si estingue, per esclusione del Sud e negazione di se stesso”. La politica non c’è più da tempo, si riduce a una ammucchiata di tutti con tutti, solo per acchiappare soldi e dilapidarli in opere inutili, quando va bene, e se no, dannose (moli mangiasoldi, Mose, pedemontane a perdere, Olimpiadi della neve in piazza duomo a valle e qualunque altra cosa possa tradursi in tangenti; e governi affidati a timonieri di passaggio, mai eletti, nella mancanza di leader in partiti capaci di partorire solo nani e trascinare a quel livello chiunque tenti di elevarsi; al punto che le persone di valore e perbene si tengono lontano da quegli ambienti; e i pochi che trovano il coraggio di starci se la passano male e magari non vedono l’ora di andarsene.
L’Italia come Paese non esiste; non è mai esistito; era un’identità culturale storica, multipla e ricchissima, che lo staterello più tetro e scemo, fra quelli che c’erano nella Penisola, ha messo nella galera dei confini (l’unificazione, basta leggere cosa ne scriveva Dostoevskij, fu la lobotomia del genio italiano), appiattendola sulla misura della inefficiente e corrotta burocrazia e classe dirigente sabauda. E dando, al nuovo Stato, la struttura da Paese coloniale (esattamente come faceva il Piemonte con la Sardegna), nel senso che una parte deruba e sfrutta l’altra, che insulta e incolpa.
Quindi, il “sentimento nazionale” è una pura rappresentazione a cui non corrisponde l’idea di Paese quale casa comune. E, anzi, prevale quella secondo cui lo Stato è nemico, e politica è portar via, dalle risorse di tutti, quanto più possibile da riversare, con ogni scusa, nel proprio territorio di stretta appartenenza. Al più identificabile con la Regione, ma solo per competenze amministrative, uffici, conti correnti, corruttele e cordate locali. Perché manco le Regioni sono mai esistite, nella nostra storia (sono state definite, giustamente, “un falso storico”); le hanno inventate per scellerato parto di fantasia; non hanno confini di stati pregressi, salvo qualcuno che non coincide con i territori assegnati ad cappellam. Si sono così moltiplicati posti, parassiti e mazzette. La “patria” per gli italiani era la città, il campanile; a fronte di una condivisa identità di secondo livello, una cultura italiana di cui si era compartecipi, avendo come base quella locale, sempre fiorentissima e persino lingue “nazionali”, prima dell’italiano.
Il Paese declina dimenticando, letteralmente, quello che c’è: il Sud, che il resto d’Italia è stato educato a vedere come un fastidioso e costoso corpo estraneo, mentre lo saccheggiano (il ladro accusa il derubato, per fare del furto un diritto e non una colpa). Le colonie interne si diffusero, nel mondo, per far decollare la civiltà industriale; oggi superata dalla globalizzazione. Il mondo si è adeguato, l’Italia degli egoismi da cortile, no.
Ma aver rinunciato alle possibilità di sviluppo del Sud, privandolo di infrastrutture, trasporti, valorizzazione in loco delle sue risorse, anche umane, ha reso l’Italia zoppa, malata e inadeguata al confronto con i concorrenti (è come salire sul ring con una mano legata dietro la schiena). Alla fine, i nodi vengono al pettine, e alla prima ondata di freddo, gli altri si prendono l’influenza, noi la tbc. In più, il Sud si è accorto come mai prima (e sempre più ne è cosciente) della condizione coloniale, vive con sempre maggiore insofferenza questo ritardo infrastrutturale ed economico indotto dalle ruberie di Stato e dalle politiche discriminatorie; e questo accade mentre il Nord produce sempre meno (le regioni settentrionali stanno precipitando nella classifica delle migliori d’Europa; oggi sono fra la parte centrale della graduatoria, verso il basso) e, per mantenere il suo livello di vita, è costretto a depredare sempre più spudoratamente le altre regioni.
Il Mezzogiorno acquisisce una sua riconoscibilità politica: nel 2015 votò in blocco per il Pd e fu tradito; nel 2018 votò in blocco per i cinquestelle e fu immediatamente tradito; poi parve sbandare paurosamente per la Lega (almeno nei sondaggi: al voto, le cose andarono in altro modo). La crisi di governo è stata consumata tutta sull’egoismo nordico, con i rappresentanti del Mezzogiorno a fare da tappezzeria e truppe cammellate al servizio del padrone.
Ma al voto di settembre prossimo, se non predomina ancora potentemente l’astensionismo, non si può escludere nulla. Il Sud ha mostrato di esserci, quando vuole. E prima o poi si fa sentire. Magari, quando meno se lo aspettano.

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