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L’ITALIA È IL PAESE PIÙ INGIUSTO CON LE DONNE

LA METÀ DIMEZZATA
(Brano tratto dal capitolo di “Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese”)
http://bit.ly/TuNonSaiQuantoÈIngiustoQuestoPaese
L’Italia è il Paese più ingiusto d’Europa verso le donne.
La condizione femminile in Italia è la peggiore in Europa. E non è una cosa da poco, perché già le donne sono portatrici, nel mondo, di minori diritti e più fregature (certo, conosciamo tutti le belle leggi scritte e ignorate): siccome sono “gli angeli del focolare”, e gli angeli non si fanno pa­gare, ci pigliamo gratis i 12,5 miliardi di ore di lavoro che loro garantiscono ogni giorno (la stima è della Fondazione oxfam, specializzata in queste ricerche) e che valgono quasi 11 mila miliardi di dollari all’anno (il triplo del valore del mercato mondiale di beni e servizi tecnologici). Quanto più un Paese è povero, tanto più alle donne si chiede di sostituirsi allo Stato nella cura di malati, disabili, anziani. Le donne svolgono nel mondo più di tre quarti di tutto il lavoro necessario per l’assistenza a queste persone: di famiglia, certo, ma questo, se fa risparmiare alle casse pubbliche soldi che non ci sono (non sempre, però, ché l’Italia non è un Paese povero, ma abusa dell’inclinazione femminile all’assistenza), priva le donne della possibilità di scegliere liberamente come realizzarsi, le casse famigliari del reddito che la loro partecipazione al mondo del lavoro potrebbe portare e la comunità del loro apporto produttivo. In tale condizione è il 42 per cento delle donne nel mondo: quasi una ogni due, una percentuale spaventosa, che si cerca di ridurre con accordi e agenzie internazionali.
Quando leggiamo queste statistiche, mentalmente ci poniamo fuori: beh, ma noi siamo un Paese sviluppato e, pur con tutti i nostri guai, fra i primi al mondo. Come dire: non ci riguarda.
Invece, da noi le cose stanno pure peggio, per le donne che nascono in famiglie povere e soprattutto se del Sud: appena il 30 per cento di loro ha un’occupazione (e, di quelle, una su tre ce l’ha perché si è trasferita al Nord). Vuol dire che la percentuale delle donne che lavora al Sud è circa la metà che nel resto d’Italia, e che l’Italia si conferma pensata e gestita in modo da essere un Paese ricco a Nord (dove concentrare la spesa pubblica e creare infrastrutture, lavo­ro, futuro) e un Paese povero a Sud (a cui sottrarre risorse, futuro, sviluppo e “la meglio gioventù”): una colonia.Italia e nel mondo, soffrono di “povertà lavorativa”, un fenomeno che ha molte facce: in Europa, statisticamente, per arrivare allo stesso stipendio degli uomini, devono lavorare due mesi in più, e più degli uomini hanno contratti e lavori precari o part-time; quest’ultimo non necessariamente scelto per conciliarlo con le esigenze della vita famigliare, ma perché, almeno nel 60 per cento dei casi, come riferisce l’istat, l’alternativa è: o così, o niente; persino le laureate vi devono far ricorso il doppio dei loro colleghi maschi. Alle donne vanno più facilmente ruoli che non tengono conto dei loro titoli e delle capacità e, a parità di competenze (e persino se più brave), molto più raramente hanno incarichi direttivi (“vertice” è un sostantivo maschile). E le cose peggiorano invece di migliorare: se agli inizi del nuovo millennio la percentuale delle donne che raggiungeva posti di maggior potere era in crescita, con la crisi del 2008, la quota rosa del comando è scesa in qualche anno da poco meno della metà a poco più di un terzo. Come se l’equità di genere fosse un lusso da tempi in cui “va l’acqua per l’orto” ma che “non ci si può permettere” quando si è in difficoltà.
L’Istituto nazionale di statistica conferma che in Italia, nei tassi di occupazione, il divario di genere è tra i più alti d’Europa, quasi il doppio della media continentale: diciotto punti percentuali contro dieci. Prima era molto più ampio, due volte tanto, ma se nei decenni si è comunque ridotto, lo si deve non solo alla crescita dell’occupazione femminile, ma anche al calo di quella maschile. Il che crea un effetto ottico di “miglioramento” che è di molto inferiore al vero. Il Global Gender Gap Index del World Economic Forum conferma che l’Italia è agli ultimi posti per occupazione femminile e partecipazione delle donne alla vita economica. Di tutte le nostre regioni, solo una, la Provincia autonoma di Bol­zano, rientra nella prima metà della classifica europea per tasso di occupazione femminile (114ª, con il 68 per cento circa); quella di Trento, pur confinante, è solo 185ª, ma in­sieme alla Val d’Aosta e all’Emilia-Romagna è ancora nella media continentale (intorno al 63 per cento). Tutte le altre regioni del Centro-Nord, inclusa la Lombardia, sono sotto la linea mediana, a cavallo del 200° posto su 277 (il Lazio 240°, ultimo).
Essere donna è davvero scomodo, in Italia. Ma esserlo a Sud è drammatico: ci vuole un salto nel vuoto di trenta- trentacinque punti dalla media continentale per trovare, agli ultimi posti della classifica, tutte le regioni del Mezzogiorno. Per avere un’idea di quello che significa, «solo l’isola di Mayotte, nei domini d’oltremare francesi, si colloca al di sotto (25,4 per cento)» del Sud d’Italia e ci impedisce di essere ultimi in Europa: lo scrivono Bianchi e Fraschilla in Divario di cittadinanza.
La conseguenza è che le donne italiane fanno meno figli.
Così, in proporzione al reddito e ai servizi pubblici disponibili, al Sud nascono sempre meno bambini che al Nord: averne può essere impedimento per il lavoro, del resto così scarso che spesso non si fanno i figli e non si trova nemmeno lavoro, con una doppia frustrazione che si accumula.
Nonostante le norme per garantire l’equità di genere, le cose non migliorano nemmeno in politica: «Nel 2020, nel totale dei Consigli regionali italiani le donne sono soltanto il 21,1 per cento», riferisce l’istat. «Le donne sindaco nel 2019 sono 1131, pari al 14,3 per cento del totale, e ammini­strano una popolazione di poco più di 10 milioni di abitanti, pari al 16,6 per cento della popolazione totale […]. Bassa è ancora la rappresentanza femminile in alcuni organi deci­sionali presenti nel nostro Paese. Alla data di ottobre 2018, le donne presenti in tali organi decisionali (Corte Costitu­zionale, Consiglio Superiore della Magistratura, Autorità di Garanzia, consob, Ambasciatrici) sono in media solo il 16,8 per cento».
Con l’eccezione delle donne magistrato, che in poco più di vent’anni sono passate da un quarto a più della metà. Sembra avvenire, in magistratura, quanto si è visto nei de­cenni precedenti nella scuola: il “signor maestro” è una specie in estinzione, mentre una volta era una delle autorità di paese (tutte al maschile), con il maresciallo dei carabinieri, il parroco e il farmacista.
I numeri rischiano di essere un po’ noiosi, ma servono a mo­strare perché essere donna è essere meno, così come essere povero o meridionale. Immaginate tutte queste cose insieme: donna, povera, terrona.
Aggiungeteci l’essere madre, disoccupata e single («Le giovani donne con figli piccoli sono le più penalizzate», riferisce l’istat), e avrete la condizione di maggior disagio sociale in Europa: che è in Italia, nel Mezzogiorno, al femminile.
Eppure… «Le giovani donne hanno livelli di istruzione più elevati rispetto ai loro pari uomini», si legge nel rapporto dell’istat, «tuttavia si registrano grandi differenziali, a loro sfavore, nei tassi di occupazione all’uscita dagli studi».
Le donne meridionali sono state protagoniste di una vera e propria rivoluzione culturale, ripagata con una feroce delusione: in pochi anni, a cavallo del nuovo millennio, avevano recuperato i ritardi di istruzione rispetto al Centro-Nord, persino superando, in percentuale, si è visto, i loro colleghi maschi del Sud e le colleghe del resto del Paese. Un successo costato caro, in ogni senso, a loro e alle famiglie, che però ha reso poco: «Una donna laureata da quattro anni che lavora al Sud ha un reddito medio mensile netto di 300 euro inferiore a quello di un uomo (1000 euro contro 1300)», scrivono Bianchi e Fraschilla. La differenza di genere, nella busta paga, c’è anche nel resto del Paese, ma si ferma a 250 euro (con alcune eccezioni rivelatrici: «per i dottori di ricerca», si legge nel rapporto istat alla Camera dei deputati, «si riscontra un divario di genere nel livello di reddito netto mensile percepito a sei anni dal conseguimento del titolo: le donne guadagnano 1610 euro mentre gli uomini arrivano a 1983, con un divario medio di 373 euro»… Il dettaglio che rende la cosa ancora più irritante è che in Italia la ricerca, come la scuola e la magistratura, è sempre più al femminile. Quindi, non solo sia l’uomo che la donna hanno compensi inferiori nel Mezzogiorno, ma quello della donna al Sud, a parità di incarico, vede una decurtazione maggiore che nel resto d’Italia rispetto al collega maschio.
Se siete donne e state per lamentarvi, tenete presente che il 20 gennaio 1927, con un decreto, Benito Mussolini decurtò del 50 per cento gli stipendi alle donne.
Sei secoli fa, nella Sardegna del 1392, la Carta de Lo­gu, il primo testo al mondo sui diritti del popolo (la Magna Charta inglese è di un secolo e mezzo precedente, ma tratta dei diritti dei potenti, non della gente), sancì che la stuprata poteva scegliere di sposare il violentatore, «ma solo se a lei piace» (in un tempo in cui i matrimoni erano combinati dai genitori), o di farlo punire con richiesta di risarcimento e taglio di una mano (qualcosa tagliavano…). E non a caso la Carta de Logu fu riscritta in tal senso da una donna: la giudicessa Eleonora d’Arborea.

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