La condizione femminile in Italia è la peggiore in Europa. E non è una cosa da poco, perché già le donne sono portatrici, nel mondo, di minori diritti e più fregature (certo, conosciamo tutti le belle leggi scritte e ignorate): siccome sono “gli angeli del focolare”, e gli angeli non si fanno pagare, ci pigliamo gratis i 12,5 miliardi di ore di lavoro che loro garantiscono ogni giorno (la stima è della Fondazione oxfam, specializzata in queste ricerche) e che valgono quasi 11 mila miliardi di dollari all’anno (il triplo del valore del mercato mondiale di beni e servizi tecnologici). Quanto più un Paese è povero, tanto più alle donne si chiede di sostituirsi allo Stato nella cura di malati, disabili, anziani. Le donne svolgono nel mondo più di tre quarti di tutto il lavoro necessario per l’assistenza a queste persone: di famiglia, certo, ma questo, se fa risparmiare alle casse pubbliche soldi che non ci sono (non sempre, però, ché l’Italia non è un Paese povero, ma abusa dell’inclinazione femminile all’assistenza), priva le donne della possibilità di scegliere liberamente come realizzarsi, le casse famigliari del reddito che la loro partecipazione al mondo del lavoro potrebbe portare e la comunità del loro apporto produttivo. In tale condizione è il 42 per cento delle donne nel mondo: quasi una ogni due, una percentuale spaventosa, che si cerca di ridurre con accordi e agenzie internazionali.
Invece, da noi le cose stanno pure peggio, per le donne che nascono in famiglie povere e soprattutto se del Sud: appena il 30 per cento di loro ha un’occupazione (e, di quelle, una su tre ce l’ha perché si è trasferita al Nord). Vuol dire che la percentuale delle donne che lavora al Sud è circa la metà che nel resto d’Italia, e che l’Italia si conferma pensata e gestita in modo da essere un Paese ricco a Nord (dove concentrare la spesa pubblica e creare infrastrutture, lavoro, futuro) e un Paese povero a Sud (a cui sottrarre risorse, futuro, sviluppo e “la meglio gioventù”): una colonia.Italia e nel mondo, soffrono di “povertà lavorativa”, un fenomeno che ha molte facce: in Europa, statisticamente, per arrivare allo stesso stipendio degli uomini, devono lavorare due mesi in più, e più degli uomini hanno contratti e lavori precari o part-time; quest’ultimo non necessariamente scelto per conciliarlo con le esigenze della vita famigliare, ma perché, almeno nel 60 per cento dei casi, come riferisce l’istat, l’alternativa è: o così, o niente; persino le laureate vi devono far ricorso il doppio dei loro colleghi maschi. Alle donne vanno più facilmente ruoli che non tengono conto dei loro titoli e delle capacità e, a parità di competenze (e persino se più brave), molto più raramente hanno incarichi direttivi (“vertice” è un sostantivo maschile). E le cose peggiorano invece di migliorare: se agli inizi del nuovo millennio la percentuale delle donne che raggiungeva posti di maggior potere era in crescita, con la crisi del 2008, la quota rosa del comando è scesa in qualche anno da poco meno della metà a poco più di un terzo. Come se l’equità di genere fosse un lusso da tempi in cui “va l’acqua per l’orto” ma che “non ci si può permettere” quando si è in difficoltà.
La conseguenza è che le donne italiane fanno meno figli.
Così, in proporzione al reddito e ai servizi pubblici disponibili, al Sud nascono sempre meno bambini che al Nord: averne può essere impedimento per il lavoro, del resto così scarso che spesso non si fanno i figli e non si trova nemmeno lavoro, con una doppia frustrazione che si accumula.
Con l’eccezione delle donne magistrato, che in poco più di vent’anni sono passate da un quarto a più della metà. Sembra avvenire, in magistratura, quanto si è visto nei decenni precedenti nella scuola: il “signor maestro” è una specie in estinzione, mentre una volta era una delle autorità di paese (tutte al maschile), con il maresciallo dei carabinieri, il parroco e il farmacista.
Aggiungeteci l’essere madre, disoccupata e single («Le giovani donne con figli piccoli sono le più penalizzate», riferisce l’istat), e avrete la condizione di maggior disagio sociale in Europa: che è in Italia, nel Mezzogiorno, al femminile.
Eppure… «Le giovani donne hanno livelli di istruzione più elevati rispetto ai loro pari uomini», si legge nel rapporto dell’istat, «tuttavia si registrano grandi differenziali, a loro sfavore, nei tassi di occupazione all’uscita dagli studi».
Sei secoli fa, nella Sardegna del 1392, la Carta de Logu, il primo testo al mondo sui diritti del popolo (la Magna Charta inglese è di un secolo e mezzo precedente, ma tratta dei diritti dei potenti, non della gente), sancì che la stuprata poteva scegliere di sposare il violentatore, «ma solo se a lei piace» (in un tempo in cui i matrimoni erano combinati dai genitori), o di farlo punire con richiesta di risarcimento e taglio di una mano (qualcosa tagliavano…). E non a caso la Carta de Logu fu riscritta in tal senso da una donna: la giudicessa Eleonora d’Arborea.