Erika Stefani, veneta e leghista, ministra all’Autononia del Veneto (l’etichetta dice: ai Rapporti con le Regioni, ma è giusto per farsi una risata), mente su questioni di sua competenza e interesse nazionale; e per farlo, in una intervista, sceglie un giornale che si chiama “la Verità”; il che, in un Paese appena serio (civile suonerebbe un po’ esagerato, avendo noi ministri come lei), dovrebbe obbligarla a scusarsi con gli italiani e con i lettori.
“Cosa significa che l’Autonomia è a saldo zero?”, chiede il giornalista. L’espressione è un’altra delle bufale con cui pensano di camuffare lo scempio delle loro azioni i secessionisti veneti e leghisti in genere, con aggiunta di centrodestra, cinquestelle e piddini nordici (i quali, buoni ultimi, hanno chiesto, con documento congiunto lombardo-veneto-emilian-romagnolo che il loro partito appoggi la Lega nel fare della Secessione “la priorità del governo”. Il Pd, ufficialmente, sarebbe all’opposizione, ma dinanzi ai soldi e a una ennesima occasione di fottere il Sud, sinistramente, non riescono a contenersi. Nessun segno di vita e dignità da parte dei presidenti delle Regioni del Sud, Pd e non Pd, né di dirigenti terron-coloniali di quei partiti).
L’Autonomia consiste nel trasferimento di 23 competenze (istruzione, sanità, strasporti…) dall’amministrazione centrale alle Regioni. E, con quelle, anche dei soldi che servono a svolgere quei compiti. Il trucco è lì. Quanti sono i soldi? “Autonomia a saldo zero”, ovviamente, vuol dire che nel passaggio dai ministeri alle Regioni, non si spende un centesimo in più. E la sventurata, infatti, a domanda rispose: “La legge che attribuirà le competrnze alle Regioni non prevede nessun aggravio sulla finanza pubblica: tutto sarà declinato in base al costo storico dello Stato regionalizzato per le materie trasferite”.
“Cioè, traducendo?”, insiste il giornalista (che forse commette l’errore di fidarsi troppo di una tizia che appartiene a un partito che usa derubarsi da solo e restituire il maltolto in solo ottant’anni. E protestare pure, mentre elegge il pluricondannato co-autore del colpo presidente del partito e senatore, con premio extra dell’attuale segretario, Salvini, che ritira la costituzione di parte civile del partito al processo: come dire che non si sentono danneggiati dal furto di 49 milioni. E, comunque, stanno per scattare le prescrizioni per Bossi e altri. La nostra solidarietà a quei poveracci che, per molto meno e rischiando molto di più, imbracciano un cannone e mettono un passamontagna).
“Il saldo totale resterà invariato: quando passa la competenza di una materia, passano anche le risorse necessarie per farla funzionare”, rassicura, mentendo, la ministra all’inganno regionale.
Quindi, giustamente, il giornalista capisce e riassume che “i soldi sono gli stessi”. E la ministra conferma e spiega l’unica differenza (lo dice lei, quindi non credeteci): a gestirli sarà la Regione e non Roma, tutto qui (ovviamente, è falso). E questo “innescherà un sistema virtuoso di responsabilizzazione delle Regioni”. Poi aggiunge…, occhio: “Il meccanismo finanziario di partenza è il costo storico”.
Ovvero, quello che lascia il saldo invariato. Già, ma “di partenza” cosa vuol, dire. Perché l’arrivo come è previsto, invece? Peccato non l’abbia chiesto il giornalista. Peccato, perché la ministra lo ha già detto, ma non a lui: l’arrivo è un sistema che consente al Veneto (e alle altre Regioni più ricche) di tenersi circa i 9/10 delle “proprie tasse”.
Ma questo non è “saldo totale invariato”, tutt’altro! Quindi la ministra mente, ci prende per il culo. Peccato si leggano così poco i documenti, perché nel “patto” fra Veneto e Governo, è scritto che le risorse, una volta partiti con il costo storico, debbano essere rapportate, in proporzione, al gettito fiscale delle Regioni, ovvero: maggior quantità e qualità di diritti ai ricchi e ‘sta ceppa ai poveri, per i quali resterà solo qualche insulto in più.
La ministra lo sa, avendo trattato quel documento con Zaia. Ma non lo dice e si ferma al “costo storico” iniziale. Siamo al gioco delle tre carte alla sagra della polenta e osei. Eppure, decine di giuristi e docenti universitari di economia e di storia (pacatissimi e moderati, in gran parte di centrodestra, ma senza distinzioni politiche, escluso i leghisti) hanno lanciato un appello e un allarme ai presidenti della Repubblica e delle Camere, controfirmato da più di 13mila cittadini, contro il “regionalismo differenziato” alla veneta (e altri a seguire) e il titolo del loro testo dovrebbe indurre a qualche riflessione: “No alla Secessione dei ricchi”.
Secessione, non autonomia. Fra i più allarmati, e fra i primi a segnalare il pericolo, il professor Marco Cammelli, da vent’anni direttore della rivista giuridica de Il Mulino e consulente delle massime istituzioni italiane.
Ma la ministra dice tace l’essenziale (ovvero: mente); il giornalista non conosce il documento del Veneto (può succedere, se ne producono tonnellate e puoi riesci a star dietro a tutto) ma nemmeno, proprio un peccato, l’appello di quei luminari e accademici.
E la patacca della ministra veneta alla Secessione veneta passa per vera. In un Paese serio, la signora sarebbe già con le sue cose fuori dal ministero, il capo di governo si sarebbe scusato, il capo del suo partrito avrebbe detto: “Lei parlava a titolo personale”.
Niente di questo accadrà. E la ministra annuncia che nulla ostacola l’opera di demolizione con uso di rapina, perché “la bozza d’intesa con il Veneto è già nelle mani del presidente Conte”.
Ma teme che la componente M5S del governo si metta di traverso. E cos’altro dovrebbe fare? Incrociamo le dita: dopo l’Ilva, la Tap, forse il Muos, questo sarebbe il coronamento di un’opera che a nessuno era mai riuscito di fare, in appena sei mesi. Che sia accaduto per incapacità, perfidia, impossibilità di far diversamente, ci consola la certezza che nemmeno il male è perfetto. E su questo, M5S e lo stesso governo si giocano tutto.