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INTERVISTA: LA VITA DEI TARANTINI VALE PIÙ DELL’ACCIAIO

La Corte di giustizia europea, in seguito all’iniziativa legale avviata dagli avvocati Ascanio Amenduni, pugliese, e Maurizio Rizzo Striano, calabrese, ha stabilito che i governi italiani non possono dare il permesso di inquinare e uccidere, per esigenze di produzione industriale, violando le norme europee a tutela della salute dei cittadini.

Avvicato Amenduni, ci può riassumere il significato di questa sentenza?

«La Corte di Giustizia europea è stata chiamata a rispondere, in via pregiudiziale, a tre quesiti interpretativi sulla compatibilità della legislazione italiana con la Direttiva europea in materia di Ambiente. I quesiti sono stati rivolti dai giudici del Tribunale di Milano, Sezione imprese, davanti a cui avevamo instaurato la Class Action inibitoria, chiedendo al giudice di disapplicare le leggi italiane che consentivano la prosecuzione dell’attività inquinante dell’ex-Ilva e, quindi, di disporne la chiusura».

Ed è quello che che è successo…

«I giudici hanno risposto con tre secchi “No” ai quesiti, e cioè: 1) se la legislazione italiana poteva prorogare l’applicazione della Direttiva di anno in anno, fino a raggiungerne quasi otto; 2) se l’ordinamento interno sul rilascio e il riesame dell’Autorizzazione Integrata Ambientale poteva dispensare gli organi preposti dalla valutazione del danno sanitario; 3) se lo stesso ordinamento poteva escludere dalla valutazione le sostanze tossiche delle emissioni industriali non ricomprese nel rilascio delle autorizzazioni. Il tutto i termini di compatibilità o incompatibilità con la normativa europea».

Quindi, per dirla terra-terra: l’Italia non può dar licenza di inquinare, calpestando norme europee, a cui devono attenersi quelle nazionali. Ma questo vuol dire che è un principio che devono rispettare tutti i Paesi dell’Unione.

«Esatto. Questi tre “No”, cioè “non è compatibile”, hanno cambiato, sul piano interpretativo, le regole dell’Autorizzazione Integrata Ambientale e hanno fornito parametri validi e vincolanti per tutte le legislazioni e per tutte le industrie dell’area-Ue».

E cosa può succedere, adesso, per lo stabilimento di Taranto?

«La Corte non si è limitata a quei tre no, perché alla fine del dispositivo ha voluto enunciare un suo autonomo corollario: qualora l’attività dell’installazione interessata presenti rischi per la salute umana e per l’ambiente, l’articolo 8 della Direttiva Europea di settore “esige, in ogni caso, che l’esercizio di tale installazione sia sospeso”».

Quindi lo stabilimento siderurgico di Taranto deve fermare la produzione o sospenderla finché non sarà in regola. E conviene, economicamente, investire su uno stabilimento obsoleto, per metterlo a norma?

«Se convenga o meno continuare l’attività industriale dell’ex-Ilva, in questo contesto, non spetta a noi giudicarlo».

La sentenza, però, anche se riguarda Taranto, è applicabile a ogni analoga situazione, in Italia e in Europa. Esageriamo se diciamo che è una decisione che segna una svolta nella tutela della salute?

«No. La sentenza ha portata universale sul territorio dell’UE, e siccome interpreta la Direttiva Europea, i giudici di Milano sono tenuti a uniformarvisi; quindi potranno esaminare la nostra domanda di chiusura o di cessazione dell’attività dell’ex-Ilva, disapplicando le leggi e i provvedimenti italiani che siano in contrasto con l’interpretazione autentica della Direttiva, fornita dalla Corte europea».

Quali sono le conseguenze immediate e il percorso giudiziario ulteriore, se previsto? Che tempi ci vorranno?

«Per quanto riguarda i tempi, si può prevedere, ragionevolmente, che la decisione dovrebbe essere emessa entro la fine dell’anno venturo; ora noi dobbiamo riassumere la causa davanti al Tribunale di Milano, ove vi saranno le difese finali».

Ci sono precedenti di questo rilievo?

«È una sentenza storica, perché con essa le tutele dei diritti alla salute umana e a un ambiente salubre, diventano, da “cenerentole”, dominanti e prevalenti sulle ragioni della produzione. E non mi risultano precedenti analoghi in Italia, in termini di Class Action inibitoria, anche perché l’Istituto è stato introdotto in epoca relativamente recente».

Lei e Maurizio Rizzo Striano avete rappresentato i diritti violati dei bambini di Taranto malati o morti di cancri attribuibili all’inquinamento. Posso chiedervi come hanno potuto i loro genitori permettersi studi legali come i vostri e le spese di trasferte a Milano, in Lussemburgo?

«Ci sono vicende in cui gli avvocati scendono in campo, senza chiedere compensi, per semplice passione giuridica e per condivisione di battaglie di grande valore mortale, civile e sociale, anche allo scopo di livellare le disuguaglianze tra la platea delle vittime e quella, ben più attrezzata, delle industrie e delle pubbliche amministrazioni».

Cosa è successo quando avete comunicato la notizia ai vostri assistiti?

«Ci sono sembrati catapultati in un vortice di gioia, dominato dall’orgoglio dell’identità tarantina, tanto a lungo sacrificato. Erano felici per se stessi e per le generazioni future di questa bellissima città, che stiamo cercando, tutti insieme, di strappare al destino di zona di sacrificio».

Cosa vi siete detti lei e Rizzo Striano alla lettura della sentenza? Dovesse fare una graduatoria delle soddisfazioni professionali, a che punto porrebbe questa?

«Ci siamo abbracciati, consapevoli che era impossibile assimilare in quel solo momento una soddisfazione destinata a far parte di noi per tutto il resto della vita. Certo è che non volevamo più lasciare la sede della Corte di Giustizia, e vi abbiamo sostato a lungo prima di uscire».

Come si sente, adesso, avvocato?

«Splendeva il sole nel cielo del Lussemburgo, sede dell’Alta Corte, il giorno della sentenza. Ma le sfide più importanti sono sempre le prossime».

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