Il dottor Denis Mukwege (nella foto, mentre riceve dal sindaco Manfredi, la medaglia della città di Napoli) è un uomo condannato a vivere, inseguito dai miracoli: appena nato, rischiò di morire per una terribile infezione e il rifiuto di curarlo, da parte di suore cattoliche belghe in Congo, perché figlio di un pastore protestante. Lo salvò l’intervento di una energica istitutrice svedese che chiese e ottenne per lui le cure adeguate. Dopo 54 anni, alla cerimonia con cui gli fu conferito il premio Nobel per la pace, a Stoccolma, Denis Mukwege volle quella istitutrice presente.
Era adolescente quando la sua casa fu bombardata, ma lui per una fortunata ribellione giovanile, era andato a stare da parenti lontano, dove dovettero raggiungerlo i suoi… Furono uccisi due ragazzi dinanzi alla loro casa e lì sono seppelliti.
Poi, nel Congo delle guerre intestine e con il vicino Ruanda, fu l’ospedale a essere attaccato; fecero una strage, ma era lui che cercavano, Mukwege, e si sfogarono mitragliando il suo camice, da poco appeso all’attaccapanni, perché lui era appena uscito per accompagnare un amico all’aeroporto, diretto in Svezia per cure più sofisticate.
La strada era infestata da truppe ostili in agguato; ma lui e i suoi amici riuscirono lo stesso ad arrivare al posto di blocco e fuori pericolo, dove gli chiesero: «Avete incrociato la macchina rossa appena passata di qui?». «Quale macchina rossa? Non abbiamo incontrato nessuno». La ritrovarono giù nella scarpata: tutti morti gli occupanti, centrati dai proiettili. Mukwege era passato un attimo dopo quello critico…
E visto che la morte non riusciva a raggiungerlo nei suoi spostamenti un attimo prima o un attimo dopo, i sicari lo attesero per ucciderlo davanti a casa sua e alla famiglia, ma il giardiniere si intromise per affetto, e morì al posto suo.
La maggior parte di noi ha già una certa età, quindi non continuo l’elenco delle volte in cui il dottor Mukwege avrebbe dovuto trovare l’intoppo, diciamo così, per impedirgli di essere qui con noi, stasera. Ma anche limitandosi alla mezza dozzina di episodi più clamorosi, emerge con chiarezza una legge fisica o divina per cui il dottor Denis Mukwege non deve morire, perché è stato condannato a vivere. Sono ateo; il dottor Mukwege è credente, cristiano e pastore evangelico, ed è più fortunato di me, perché la sua spiegazione di tanta fortuna è la mano di Dio; la fisica, invece, a me è di scarso aiuto, perché la vita di Denis Mukwege ne calpesta le leggi. Insomma, la roulette russa è quell’orrenda lotteria in cui metti una pallottola in una pistola a sei colpi e premi il grilletto, con cinque probabilità di farla franca. Nella pistola, diciamo così, posta alla tempia del dottor Mukwege sono stati messi 6 proiettili e per 6 volte si è inceppato il grilletto.
È un uomo inseguito dai miracoli. La fisica parlerebbe di coincidenze, ma i greci dicevano che quelle sono la lingua che usano gli dei per manifestare la loro volontà. Quindi, bisogna rassegnarsi: un volere divino vuole Mukwege vivo (dichiarandomi incapace di migliori spiegazioni, chiedo asilo politico a Napoli, così antica e saggia, da avere tutte le risposte, anche a questo: dottore, qui sanno perché: è ‘a sciorta!).
Per fare cosa deve vivere Mukwege? Ha finora salvato, “riparando” le orrende lesioni e ferite di stupri e torture bestiali, circa centomila donne. Ha difeso il loro diritto alla vita, al rispetto, contro il pensiero dominante nel suo Paese (e non solo), sino allo storico intervento alle Nazioni Unite, con una campagna che lo ha messo in pericolo ed è costellata dai premi più importanti del mondo, sino al Nobel.
Il dottor Mukwege è un bravo medico, ha studiato e lavorato in Francia, ma pensando alla sua gente, alla sua terra. Ci sono qui in sala ragazzi dei quartieri difficili di Napoli. Hanno costruito un’associazione con un progetto-sfida: riuscire nei loro sogni, nonostante gli ostacoli delle circostanze e persino (per molti di loro) familiari. Un imprenditore napoletano, Francesco Iannaccone, del Neperia Group, li sostiene e li premia, con una penna (oggetto simbolico, per raccontare il loro percorso), che viene prodotta solo in 12 esemplari, che i ragazzi intendono assegnare a persone che incarnano i valori da cui vogliono essere guidati, a cui si ispirano. Hanno consegnato la prima di quelle penne al dottor Mukwege, per una lezione che si può riassumere in una frase della sua autobiografia: «Se “io” sono l’unica cosa di cui mi importa, cosa ci faccio su questa terra?». E vuol dire: se vivere non è con e per gli altri, non è vivere. Siamo animali sociali: per essere homo sapiens, bisogna essere almeno in due. Ma quando un uomo ne incontra un altro, diceva Aldo Moro, nasce la politica, ovvero la misura e la gestione dei rapporti con i nostri simili. Quello che il dottor Mukwege e altri grandi ci ricordano è che occuparsi del nostro prossimo non è bontà, ma una sofisticata forma di furbizia, perché è assecondare le caratteristiche che ci rendono riconoscibili come esseri umani. Chi se ne dimentica, torna bestia.
Il dottor Mukwege avrebbe potuto accettare le proposte ricevute in Francia, avrebbe lavorato in grandi, sicuri ospedali, non avrebbe corso alcun rischio e avrebbe guadagnato cento volte di più. È tornato in Congo, ha creato il maggiore ospedale del suo Paese, ha salvato centinaia di migliaia di vite, rischiando la sua e quelle della sua famiglia.
Che bel maestro si sono scelti i ragazzi di Napoli!
Vi sto parlando, quindi, di una persona straordinaria, unica, inimitabile? Questo non lo so e, non può saperlo nemmeno il dottor Mukwebe. Straordinario è quello che lui ha fatto e fa, e questo fa sembrare straordinario pure lui, che forse lo è, ma non si può dire, perché una legge della psicologia sociale dimostra che “persone ordinarie fanno cose straordinarie”. Mi sa che i ragazzi dei quartieri difficili ci hanno visto giusto. C’è un detto che spiega questa legge della psicologia sociale: se uno sa dove andare, la gente si sposta per farlo passare. E Mukwege decise bambino di fare il medico. Ma c’è un altro detto, che funziona lo stesso: nessuno va così lontano, come chi non sa dove sta andando. Torniamo alla fisica: primo detto, rappresentato da un segmento da P0 a P1, verso destra; secondo detto, rappresentato da un segmento da P0 a P2, verso sinistra. Perché funzionano entrambi? In questo universo, accadono cose dove delle grandezze si incontrano: due piani, un piano e una retta, due segmenti… Quindi, è in P0 che c’è la risposta. E cosa accade, lì? Che qualcuno, sappia o no cosa sta facendo, si muove, decide di fare qualcosa e la fa. Quindi, non possiamo sapere se Denis Mukwege è una persona straordinaria, ma è sicuro che in P0 non è stato fermo e quello che ha fatto e fa è straordinario. La vita di Mukwege ci dice qualcosa. Forse un rimprovero.
L’Europa è centro del mondo e crede di essere il mondo, come tutti gli altri che ne sono al centro. Ma siamo illusi e accecati dalla troppa luce, sordi per i troppi rumori e dimentichiamo un’altra legge della fisica ma anche sociale: “il mondo cambia lungo i margini”, ai suoi confini. Sono gli elettroni delle orbite più esterne, dei livelli di energia periferici che si combinano per dar vita a nuovi composti, nuove sostanze; e mentre a Roma le famiglie imperiali progettavano futuri con i loro nomi, a Gerusalemme, i figlio di un falegname veniva appeso a una croce ed ereditava l’impero e i millenni. C’è una cosa che accomuna tutte le più grandi imprese della storia dell’umanità: sono nate come sogno nella mente di una persona sola e sono diventate il percorso del mondo. «Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è mai arreso», disse un africano che non si arrese e vinse, per lui, per la sua gente e per noi tutti, Nelson Mandela, per il quale le cose sono impossibili solo finché qualcuno non le realizza.
Quanto poi arriva a dominare il centro e dal centro, nasce nelle periferie, in quelle geografiche e in quelle sociali. È l’Africa che disegnerà il nostro futuro, il continente più giovane del mondo, mentre noi siamo il più vecchio. «Dobbiamo avere il coraggio di inventare l’avvenire», ha detto un altro grande africano, Thomas Sankara, che pagò con la vita il suo impegno. Ma, nella visione del domani, rischiamo di confondere la tecnologia con la civiltà, vedendo, in questo, la presunta supremazia dell’Occidente sull’Africa. Ma mentre l’Occidente, da un po’ di tempo, ci dà solo altra e più veloce tecnologia, l’Africa ci ricorda, anche con l’esempio del dottor Mukwege, che la civiltà ebbe inizio quando il primo della nostra specie, invece di approfittare della malattia e della debolezza di un suo simile, lo aiutò a guarire.
L’incontro fra il dottor Mukwege e i ragazzi dei quartieri difficili di Napoli, favorito dal console del Congo che ci ha riuniti qui, Angelo Melone, è la sintesi delle periferie geografiche e sociali. Se il mondo cambia ai margini, sono loro i nostri maestri, senza nemmeno pretendere, e talvolta nemmeno sapendo, di esserlo.
Grazie dottor Mukwege. E grazie pure a voi, guagliù!