«Volevo finalmente avere a che fare con qualcosa di pulito. In merda veritas.»
Il tono era provocatorio. Il vocabolario pure, i modi signorili, a dispetto della ostentata praticità. «Il liquame è metafora del mondo moderno: non t’importa dove si perda la lordura, basta che non si veda e ti stia lontano o anche solo ti dicano, in modo credibile, che è altrove. Una volta, tutti sapevano dove finiva la propria merda, la osservavano per capire se il corpo funzionava bene; ne discutevano, la pesavano. Se ne valutavano quantità e qualità. E non la si sprecava: concime, per rimetterla nella catena alimentare. Oggi si butta, come il pane avanzato; e la si ignora, come le conseguenze delle proprie azioni: una volta fatta, non è più mia, ma parte indistinta di un fetido corpo sociale a cui ognuno contribuisce secondo le proprie possibilità; competenza di altri. Rifiuto di parte di sé. Qualcosa, però, non smette di esistere, solo perché preferiamo tacerne l’esistenza. È una forma di cecità volontaria, per non rispondere all’ultima domanda: come va a finire? Io lo so. Lo so di tutti. Ma nessuno vuole il mio posto, e tutti si pensano superiori a me, perché si tende a ritenere che la qualità dei materiali e di chi li usa sia la stessa.»
Leone Edeniso scrutò l’effetto del primo attacco sul volto dell’ospite. E, come se stesse parlando di automobili o di calcio, invitò: «Prenda una cartellata; sono dolci di Natale, ma io me le faccio fare tutto l’anno».
L’uomo era esuberante, amava l’ironia greve, escatologica – tipico dei salentini del nord, come i tarantini – e, in modo originale, stava pesando l’ospite e la sua sensibilità al pregiudizio. Gli spiegò di aver voluto assecondare, con la propria scelta, una vocazione di ritorno, anzi di famiglia.
«Mio padre passava per le strade del paese, un bel po’ più a nord di qui, con u carrizz, una grande botte trainata da un mulo, nella quale le donne sversavano i cantri, u pris, in dialetto. Per alcuni istanti, mio padre viveva un’intimità forzata e al più basso livello, con tutte le donne del paese, che esponevano al suo giudizio la merda di famiglia. Solo con le donne: ché era disdicevole, per gli uomini, portare u pris o’ carrizz. L’unico maschio che aveva rapporti con la merda, in pubblico, era mio padre: l’ultimo degli uomini, il signore del gradino più basso. Ma dal basso, lui vedeva il culo di tutti.»
«Per modo di dire…» corresse U’ Tis.
«Professore,» continuò Edeniso «la verità uno la dice al confessionale e alla fogna. Ma al prete puoi mentire o evitare di raccontargli i fatti tuoi; in bagno non puoi non andare. Se non liberi l’anima, non muori; se non liberi l’intestino, sì. Così, potevi nascondere pure al prete la miseria piombata in casa tua, non a mio padre: se non mangi, non espelli.
Per non disertare l’appuntamento con il carrizzo e non incuriosire con la propria assenza, alcune donne usavano incrementare lo scarso contenuto del cantro di casa, con acqua sporca e altra poltiglia. Ma mio padre era esperto della materia e grande osservatore. Gli bastava scambiare uno sguardo con la portatrice del priso truccato, per far intendere che aveva capito. E, da quel momento, lei sapeva che lui aveva in mano un pezzo della stima sociale della famiglia segretamente decaduta. La domenica, il menu del paese prevedeva carne al sugo. Ma non tutti potevano permettersela; o non più. Così, i maschi scendevano in piazza, dopopranzo, con la camicia macchiata, quale traccia della carne consumata. La macchia sulla camicia ne evitava una sulla reputazione. Ma quando svuotavano il priso, papà lo capiva se quel sugo aveva condito fagioli, ceci, cicoria e non carne. E alla donna che svuotava, non sfuggiva l’occhiata complice e saputa. Nel consegnargli la merda, gli consegnavano i segreti di casa. E divenivano dipendenti dalla sua discrezione. Più che dal prete, mi segue?»
«Certo: il prete è obbligato al segreto, suo padre non lo era.»
«Appunto. Ancora peggio era la malattia, allora vissuta come vergogna; la ragazza che s’ammalava era guardata con sospetto: chi avrebbe sposato una di poca salute, in un tempo in cui solo i più forti avevano futuro e la medicina disponibile era la preghiera e, per chi poteva, il brodo di piccione? Chi avrebbe preso a lavorare il bracciante cagionevole, cui si rischiava di pagare una forza smangiata dal morbo e non spesa sui campi dello scirocco, del deserto di calcare a cui strappare valore e sapore? La puzza del malato puoi chiuderla in casa, ma se svuoti il cantro sotto il naso del massimo esperto di effluvi escrementizi, lui capisce. Il destino di una famiglia era affidato al silenzio di mio padre. Dell’ultimo degli uomini. E anche l’unico di cui non sapevi nulla, perché se tutti portavano a lui i propri escrementi, a nessuno lui portava i suoi, i nostri. E nessuno aveva interesse a sapere di chi stava tanto in basso, da tornare ogni giorno a casa dal lavoro lordo degli inevitabili schizzi di tutto il paese. Insomma, monsieur Pirro, perdoni il linguaggio: era come se tutti gli cacassero addosso. Ma, per farlo, dovevano scoprirsi.»
U’ Tis cominciava a capire il senso del lungo discorso. Non il perché.
«Questo non rimase privo di conseguenze sociali. Dicono che la politica è sangue e merda. Papà era ambizioso e intelligente: fece politica con la merda, trasformò in potere e voti quelle relazioni, quel sapere i segreti di ogni casa; fece carriera in ambito locale, non occupò mai poltrone importanti, ma chiunque le occupasse, dalle nostre parti, lo doveva a lui. Era uomo di analisi finissime, esposte con linguaggio povero, scorretto. E non tentò mai di combattere il pregiudizio che lo penalizzava, quale raccattamerda, perché il primo a nutrirlo era lui. Avrebbe potuto dirozzarsi con la sua intelligenza, la capacità ferina di apprendere, capire. Non
occupò mai poltrone importanti, ma chiunque le occupasse, dalle nostre parti, lo doveva a lui. Era uomo di analisi finissime, esposte con linguaggio povero, scorretto. E non tentò mai di combattere il pregiudizio che lo penalizzava, quale raccattamerda, perché il primo a nutrirlo era lui. Avrebbe potuto dirozzarsi con la sua intelligenza, la capacità ferina di apprendere, capire. Non lo fece: quegli schizzi addosso li avvertiva indelebili.
Lui, dalla parte più lurida, coglieva profondità che a me sfuggivano. E questo mi mancava: la profondità, non il luridume; ove si desse per scontato, e non ne sono così sicuro, per conoscenza diretta di entrambi i campi, che certi schizzi sporchino più del petrolio.»
«Non starà idealizzando un po’ troppo la… materia?» azzardò U’ Tis, con un mezzo sorriso. «In fondo, se tutti la buttano, senza meditarci tanto sopra, ci sarà un motivo.»
«Ci rifletta» riprese Edeniso, alzando la posta. «La merda, e diamoci Freud per letto, è la nostra ultima forma di comunicazione: si smette prima di parlare che di defecare. L’ultimo boccone dovrà comunque espellere il suo scarto. E l’estremo respiro, quando l’anima ci abbandona, coincide quasi sempre con il rilascio degli sfinteri: lo spirito e gli escrementi lasciano il corpo insieme. Uno muore quando la vita esce dal corpo. E dal corpo di chi muore escono anima e merda: all’esistenza della prima credo per fede, ma un ateo può contestarmela; quella della seconda è indiscutibile. Il meglio e il peggio di un uomo non lo seguono nella bara con le sue spoglie: sono la parte vitale che ritorna in circolo. Vuol dire qualcosa che anima e merda abbiano lo stesso destino?».