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IL MIO SALUTO A FEDERICO PIRRO, GIORNALISTA E SCRITTORE

SCRISSE “UNITI A FORZA (SULL’UNITÀ D’ITALIA)”

Federico Pirro era un grande giornalista, un uomo onesto e coerente: ero suo vicino di scrivania alla Gazzetta del Mezzogiorno, a Bari, dove ero stato chiamato dalla redazione di Taranto: avevo 23 anni, lui 30, già sposato e padre, studi giuridici, impegno politico, serio, serio, serio, serio in tutto quel che faceva… Ma sapeva ridere davvero: quanto abbiamo litigato e quanto abbiamo riso!

LAVORAMMO INSIEME ALLA “GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”

Uno così “a posto” (ripeto: serio, non serioso) ebbe qualche difficoltà iniziale con me, che ero battitore libero (allora si diceva “cane sciolto”) e avevo in sospetto ogni forma di istituzione (ma le istituzioni servono: lui lo sapeva già, io no), convinto, in forma quasi paranoide, che volessero tutti condizionare quello che scrivevo; ero estraneo agli equilibri della redazione centrale e “baresi” (non è cosa da niente per un tarantino): insomma, a distanza di tempo, ammetto che dovevo risultare insopportabile. Mi salvava un po’ la simpatia per un idealismo che appariva fuori tempo massimo, adolescenziale, e induceva, forse, a paterna sopportazione.

I sette anni di differenza e il carattere forte, ma leale e disponibile di Federico, più una sorta di proselitismo partitico verso di me che avvertiva politicamente affine, lo rendevano paziente verso il mio spigoloso agire e dire. Ma, alla lunga, non reggeva a quelle che dovevano sembrargli provocazioni, e si finiva per litigare. Tanto ferocemente (aveva tono di voce da comizio, Federico), che tutto il giornale poteva seguire l’andamento della discussione. Finché, per l’inutilità del muro contro muro, non concludevamo di colpo con: «Ma sì, ma vaffanculo e andiamoci a prendere un caffè». Quell’amicizia venne coltivata di caffeina e urla, mentre io, pur non volendo, imparavo da lui il valore dei confini, e lui con me si incuriosiva sulla necessità del loro sfondamento e guardava oltre, con l’equilibrio della sua onestà. Crebbe pure la reciproca stima professionale. Ci frequentammo con le famiglie, andavamo in vacanza insieme.

LA NOTTE CHE UCCISERO BENEDETTO PETRONE

Insieme facemmo cose che sono rimaste importanti, nella storia di quegli anni della Gazzetta del Mezzogiorno, che raggiunse una diffusione straordinaria (la guidava un direttore con cui entrai subito in conflitto, Oronzo Valentini, un maestro che ha formato generazioni di giornalisti, finiti a dirigere testate ovunque; e che, seppi anni dopo, diceva di me: «Ha il brutto carattere di quelli bravi». Uscimmo dalla Gazzetta lo stesso giorno. Volli ringraziarlo per tutto quello che mi aveva insegnato; «Ne valeva la pena», rispose. «È il compito di chi comanda»).

Una notte, ero di turno in cronaca. Arrivò una telefonata: una squadraccia di giovani fascisti usciti dalla sede del Msi aveva aassalito un gruppo di ragazzi del Pci della città vecchia (una strada separava a Bari la città murattiana e borghese, dal centro storico “rosso” e proletario. Oggi quella strada unisce le due città). Uno degli aggrediti era poliomelitico, non riuscì a tenere il passo degli altri, fu raggiunto e sventrato con un coltellaccio. Si chiamava Benedetto Petrone, aveva 18 anni.

Federico si era attardato, per sistemare alcune sue cose. Mollò tutto, ci dividemmo i compiti, scrivemmo a velocità supersonica, perché il giornale doveva andare in stampa. Poi mi precipitai in Questura: avevano preso alcuni degli aggressori. Federico rimase in redazione a completare la sua parte di lavoro, poi mi raggiunse, proprio mentre un dirigente di Polizia veniva fuori con un foglietto, su cui ci fece buttare uno sguardo, il tempo per copiare i nomi.

Corsi al giornale, mentre Federico in Questura continuava a raccogliere tutte le notizie possibili da “buttare in pagina” sino all’ultimo minuto prima che partissero le rotative. Gli articoli venivano scritti alla macchina da scrivere, allora; il “Proto”, direttore di tipografia, li distribuiva ai linotipisti che li ricopiavano in linee di piombo, poi ricomposte in una gabbia metallica, su cui la stampante avrebbe steso inchiostro e carta.

Ma alcune volte, ad alcuni giornalisti, in una vita di professione, è capitato di dover “scrivere” direttamente in piombo, dettando al linotipista. Il “Proto” mi aveva destinato il migliore. Ma io avevo in tasca quel foglio di nomi copiati insieme a Federico. Trovai una scusa e indussi il Proto ad assegnarmene un altro. Lui, pur non spiegandosene la ragione, lo fece. Poi mi si avvicinò e chiese: «Perché?». Accennai al primo linotopista, il più bravo, militante comunista, segretario della Cgil poligrafici: «Nella lista dei fascisti aggressori c’è suo figlio». «Ci penso io», disse.

DOPO 15 ANNI A REPUBBLICA E AVER DIRETTO RAI-PUGLIA, FECE SOLO LIBRI

Tornai in Questura, da Federico: lavoravamo già all’edizione del giorno dopo. Arrivò il primo linotipista, ritto, dignitoso, bianco come un cero: «Ma è mio figlio».

Il giorno dopo era sciopero nazionale dei giornalisti. Lavorammo tutti gratis, ma facemmo uscire il giornale a prezzo scontato, con il ricavato alla famiglia del ragazzo ucciso.

Poco dopo lasciai il giornale. Trent’anni dopo, pubblicai “Terroni”. Ignoravo che Federico, dopo aver lavorato quindici anni per Repubblica, aver diretto la sede Rai della Puglia, stava scrivendo “Uniti per forza (sull’Unità d’Italia)”, che uscì pochi mesi dopo. Pure lui scriveva, ormai, solo libri.

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