Insieme a Giordano Bruno Guerri, Maurizio de Giovanni e a decine di altri scrittori e giornalisti, un libro di racconti originali. Il libro è in vendita, ma viene inviato dall’editore a chiunque lo richieda, fidando poi in una libera offerta. Le somme così raccolte sono poi donate all’Unicef.
«“Dimentichi la Patria, chi doppia Capo Malea”, dicevano i greci, perché oltre il Peloponneso, venendo da Est, c’era l’inquieto Adriatico, che per loro era “l’oscuro Occidente”. L’imprevedibilità e la forza dei venti, che soffiavano per giorni, poteva negarti la rotta e scagliarti altrove. Ma Odisseo doveva farlo, per tornare a Itaca, e dopo Capo Malea perse il ritorno a casa per altri dieci anni, dopo i dieci di Troia e grazie a questo Omero ci ha dato la madre di tutte le storie. Attenta, ora: tocca il muro e seguilo con la mano».
«Acciden… ma…».
«Te l’ho detto, appena giri quest’angolo, quando tira libeccio forte che si incanala senza ostacoli nella ruga lunga e stretta, rischi di essere spinta dall’altro lato della via e imboccare la strada a sinistra. Il nostro percorso è un altro. Zitta, ascolta: senti?».
«Qualcuno suona…, cos’è? Sembra una sorta di violino aspro e potente».
«Appena la musica ci arriverà forte, dobbiamo girare, e saremo nella strada del lirico, la chiamo così. È il suono della lira calabra, che è a corda, certo, e si suona con un archetto, ma di polso, di potenza, non come le lire che trovi in tutto il Mediterraneo, nelle aree che furono a lungo sotto il dominio di Bisanzio. Fu un etnomusicologo di Catanzaro, Ettore Castagna, a recuperare, ancora ragazzo, quest’arte ormai quasi persa e ora nuovamente diffusa. E qui c’è uno che la pratica. Il lirico non era un musico , ma “un capo religioso, un capo morale, un capo politico: è l’ideale dell’uomo completo”, spiega lo studioso Francisco Rodrìguez Andrados. Ascolta…? Senti che forza? Ci vuole una particolare energia. Ma solo qui, in Calabria. La terra dei lirici era il Mediterraneo orientale, però, ecco cosa scrive Gennaro Avano, in “Riti misterici ed esoterismo nella musica meridionale”: nel Canone Alessandrino, l’elenco dei generi letterari compilato ad Alessandria da Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, “viene fatta una distinzione tra lirica monodica, cioè di canto individuale, e lirica corale eseguita da un coro danzante o da un solista contrapposto a un coro. Nell’elenco, tra i lirici del primo tipo, sono indicati Anacreonte, Alceo e Saffo; tra quelli corali invece Alcmane, Bacchilide, Simonide, Pindaro e finalmente il siculo Stesicoro e il calabro Ibico”. Di Ibico è rimasto quasi niente, ma in un frammento della sua opera si parla degli eroi di Troia, tanto che questo è uno degli indizi della tesi sulla italicità dei poemi omerici».
«Io manco sapevo dell’esistenza di Ibico! Ora la musica è fortissima!».
«Siamo sotto la finestra del lirico. Giriamo a destra. Quando la musica si affievolirà, se siamo fortunati, potremmo non farci i fatti nostri; ma dobbiamo tendere l’orecchio, perché non ci sfugga. Io chiamo questa “la ruga di Joyce”».
«…quello dell’altra Odissea, ma a Dublino? L’irlandese? L’amico di Italo Svevo?».
«Lui. Che con questa strada non c’entra niente. O forse un po’. Insomma, spiego: quasi alla fine della via, vive una coppia diciamo molto affiatata. Quelli come noi, tu e io, hanno un udito fine, e così colsi, un giorno, dei bisbigli d’amore. Era lui che chiedeva a lei di variare l’esercizio, per non essere troppo espliciti. E lei parve entusiasta. Sai cosa significa entusiasmo? “Annegarsi nel dio”, perdersi in una sorta di trance, un abbandono totale. E sino ad “annegarsi”, magari uno ci arriva. Quanto a “nel dio”, allora serve Joyce, che fu amico e maestro di inglese di Italo Svevo, tanto che fra loro parlavano e si scrivevano in una sorta di gergo anglo-triestino; ma Italo Svevo fu per Joyce maestro più pratico: lui era tanto, come dicono qui?, “rattuso”, quanto James Joyce complessato. Nel soggiorno triestino, Svevo indusse l’amico a riflettere su uno spreco di piacere che commetteva, considerato il fisico della moglie. Riflessioni che non andarono perse se, tornato in Irlanda, Joyce un giorno gli scrisse che, finalmente “ho reso omaggio a quell’altare, dove la schiena cambia nome”, con gran soddisfazione della signora, pare. Beh, la coppia in fondo alla ruga non so come sia messa a letteratura, ma quanto al resto, non hanno avuto bisogno di Svevo. Sssst….».
«Ci danno che ci danno!».
«Che fai, origli? Una signora! Oh, oh…».
«Perché, tu no?».
«Ok, muoviamoci, altrimenti la nostra sosta sarà notata e non ci faremmo una bella figura. Tre passi e a sinistra».
«Cosa? Cosa dice quel signore?».
«Che siamo stati scoperti… Ha capito che origliavamo. E può averlo capito solo se lo fa pure lui. E anche se non lo facesse, certe cose non restano segrete in un paesino così piccolo, dove la vita di tutti è sotto gli occhi e le orecchie di tutti».
«Ma diceva cose che non capivo».
«Maru cu sta ‘mpisu all’amuri, na vota nasci e natri centu mori. È un proverbio calabrese: triste chi dipende dall’amore: una volta nasce e cento muore.».
«Ma sembrava quasi cantasse!».
«Eeeeh, questi nostri dialetti hanno dentro tante lingue, racconti, storie, suoni, che… La base è greca, come dire: partiamo dai maestri del tutto. Hai sentito quel fiero declamare? Lui non saprebbe dirti la ragione culturale di tanto orgoglio, quasi presunzione, ma sa di pronunciare qualcosa che vale. Basterebbe guardarsi intorno per saperlo. Dove? Pucambù: da qualche parte, ma devi volerlo fare, perché thorì ecino, pu pài yireguonda: vede solo colui che sta cercando. È grecanico, qui ormai scomparso, si parla ancora un po’ più a Sud. “Middalo pricìo ene to chumama/ (…) mènume crimmèni sce merìe macrìe”, canta Salvino Nucera: “La nostra terra è una mandorla amara/ rimaniamo acquattati in luoghi lontani”. Il senso di quel valore però resta e qui lo si sente, eccome se lo sentono, ma i più vecchi, ché i loro figli e nipoti sono stati educati a vergognarsene, dalla scuola che puniva chi parlava “in dialetto”, pur se si tratta di vere e proprio lingue, per imporre in falsa alternativa un italiano che per unire doveva appiattire. I pronipoti, invece, con l’estrema modernità, recuperano l’antico».
«Continua a declamare, credo si sia accorto che parliamo di lui; siamo diventati il suo pubblico».
«Senti, senti…: Cu ndavi muccia, cu non havi mustra. Chi ha nasconde quello che ha e chi non ha mette in mostra».
«Beh, ma chi lo capisce, così; giusto tu, che sai e traduci».
«Scherzi? Il più grande attore di sempre è da molti ritenuto un puparo catanese che recitava nel dialetto della sua città, nei maggiori teatri del mondo, Giovanni Grasso; influenzò talmente il suo tempo e la sua arte, a cavallo del Novecento, che Edward Gordon Craig e Vsevolod Emil’evic Mejerchol’d si riferirono a lui, per le loro “rivoluzioni teatrali”; Luigi Pirandello era colpito dalla sua “meravigliosa bestialità”, vedendo un che di “primitivo”, e meglio sarebbe stato dire “arcaico” nella sua recitazione, mentre altri, racconta un biografo del puparo, Gabriele Sofia, riconobbero in lui un maestro. Come Lee Strasberg, fondatore dell’Actors’ Studio di New York, dove si formarono Marlon Brando, Robert De Niro e tanti altri, che una volta, in un seminario a Buenos Aires, parlò di Grasso, spiegandone la grandezza. Gli risposero che lo sapevano benissimo, perché aveva recitato pure lì, più di cinquant’anni prima. E ancora se lo ricordavano. Ci siamo».
«Dove? Arrivati?».
«No, ma questa ruga è la mia preferita, piena di aromi. Rallenta, rallenta. Mmmmmm!».
«Ma che meraviglia! Una trattoria? Pranziamo qui? Non avevamo appuntamento con quei tuoi amici?».
«Nessuna trattoria. È una donna, nemmeno anziana, il cui figlio fu costretto a partire, come quasi tutti i nostri giovani. Lei è pugliese, ha sposato uno di qui. Il figlio portava tutto quel che faceva all’eccellenza, inadatto alla mediocrità. E così pure a tavola. La vita e il mondo parevano attenderlo con il meglio, ma appena giunto a destinazione, un banalissimo incidente, in un ristorante, cadde trascinandosi appresso le bottiglie su un tavolo, una si ruppe, gli tagliò il collo. Non ci fu nulla da fare. Da allora, lei cucina per lui le ricette de “Il cuoco galante”, uno dei primi e forse il più importante trattato di gastronomia, scritto un paio di secoli fa da uno del suo stesso paese, Oria, Vincenzo Corrado, un filosofo che applicava il suo genio ai fornelli. Lei, ogni giorno prepara, con stoviglie e fuochi d’epoca, fiera del pionieristico uso del pomodoro fatto dal suo compaesano, per esempio nella famosa ricetta Della Testa del Vitello Lattante: “Al Colì di Pomidoro: Dopo cotta ne’ suddetti modi la Testa del Vitello, si può tagliare un fette; e passate con butirro, ed erbe trite, si servirà con Colì sopra di pomidoro”. Apparecchia con cristallerie e posate d’argento, poi si siede dinanzi alla porta e aspetta. A chiunque passi, dice sempre e solo due frasi: “Non è ancora arrivato”, oppure “Ma adesso arriva”. La sera, il marito la porta a letto, rassetta. Così da dodici anni. “Non è ancora arrivato”… Ecco, hai sentito? Questo significa che dopo la prossima casa giriamo ancora a destra. Poi sempre dritto e saremo a destinazione».
«Cos’ha questa casa che ha reso molle la tua voce?».
«Eh già, gli altri non se ne sarebbero accorti, ma quelli come noi hanno antenne più sensibili. Lei abitava qui. Bellissima. Io leggevo, leggevo, per raccontarle storie; le piacevano, mi diceva, ma poi non le ascoltava. Io leggevo d’amore e lei faceva pratica con i ragazzi del paese. Lo sapevano tutti e tutti cercavano di farmelo capire. Finché lei partì con il delinquente del posto e tornò sporca dopo che lui l’aveva usata. Fu allora che divenni cieco. Ora la casa è vuota. I medici dicono che nulla mi impedisce di vedere, ma io non vedo. Per leggere le più belle storie del mondo, non avevo saputo vedere il mondo, la vita accanto a me. Quindi, la vista non mi serviva. Hanno provato di tutto, ma io non vedo».
«Pentito?».
«Ho maledetto i libri, la letteratura, l’alfabeto e me stesso. Poi ho capito che non si possono avere due doni. Ricordi Edgard Lee Master cosa fa dire a Jack il cieco, nell’Antologia di Spoon River? “C’è qui un cieco dalla fronte/ grande e bianca come una nuvola/ e tutti noi suonatori, dal più grande al più umile/ scrittori di musica e narratori di storie/ ci sediamo ai suoi piedi/ per sentirlo cantare la caduta di Troia”. Ho capito dopo, come al solito; ma dopo non vuol dire tardi: se vuoi vedere quello che gli altri non vedono, non devi vedere quello che gli altri vedono. I ciechi aprono gli occhi ai vedenti, chiudendo i propri. Non puoi avere due doni. A meno di non incontrarsi fra chi abita il tuo stesso buio e la tua stessa luce».
«Io ho sentito subito come sei. Ti ho riconosciuto dalla voce e da quel momento ho saputo che nel nostro buio vedevamo le stesse cose e potevi entrarmi nell’anima senza far male. Ho paura del dolore; il dolore sono gli altri. Sai cosa ti ho detto mentalmente? “Salvami”. Ho aspettato che lo facessi, ma tu fuggivi. Non ti tengo la mano per non perdermi, ma per non perderti. Senza il tuo errore e la tua lunga pena non ti avrei mai trovato».
«Senza il mio errore e la mia lunga pena non ti avrei mai trovata. I capolavori nascono così, per un errore iniziale: non ci sarebbe letteratura, senza gli errori. Per l’Odissea, l’eroe deve perdere la rotta dopo Capo Malea; e senza “che la diritta via era smarrita”, non avremmo la Divina Commedia. Ora attenta, c’è una salita di gradoni lunghi e con piccola alzata, sino al castello, poi la scalinata: io prendo quella a destra tu quella a sinistra e ci abbracciamo sul pianerottolo al primo piano. È lì la presentazione dei tre autori finalisti del premio Caccuri».
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