LA FESTA DEI LAVORATORI FU UNA CONQUISTA, COME LA SCUOLA, LA SANITÀ
Il rischio è che il Primo maggio si riduca a messa cantata, alla decisione se andare al concerto di Taranto (di base, più popolare, con quattro soldi ma tanto cuore e tanta gente), o a quello di Roma (più istituzionale, più ricco e tanta gente). E questa scelta conserverebbe ancora tracce della ragione originale, politica del Primo maggio. Temo che il motivo oggi più forte possa essere un altro: chi canta a Roma e chi canta a Taranto? A far la differenza sarebbero le preferenze musicali. Ma, dato che pure la formazione del cast dei concerti jonico e capitalino risente delle motivazioni politiche, ci si potrebbe scorgere, più flebile, un sentore di quei sentimenti (che quando si traducono in pratica, possono portare a schierarsi per la chiusura dello stabilimento siderurgico che ammazza i tarantini, avvelenandoli fin da piccoli; o alla sua sopravvivenza in forza del vergognoso “accordo migliore possibile, nelle condizioni peggiori possibili”).
La mia sensazione è che, per molti, la scelta fra Taranto e Roma sia determinata (forse, più per quelli che vanno a Roma, che per quelli che vanno a Taranto, dove la carica politica è molto più sentita) dalle previsioni del tempo: che fa, domani, lì, piove?
LE VERGOGNOSE BATTUTE DI MATTEO SALVINI, IL NULLAFACENTE A VITA
Questo allontanarsi dalle ragioni della festa può sembrare, tutto sommato, un fatto positivo: vuol dire che quello che si è ottenuto con fatica, come conquista, è divenuto un’ovvietà. Ma in questo si nasconde un pericolo serio: la banalizzazione di quella fatica, della conquista. E, giusto per non farcelo mancare nemmeno un giorno e sporcare pure il Primo maggio, con le cazzate di uno che non ha mai lavorato in vita sua, Matteo Salvini (nullafacente dichiarato, come l’altro campione della laboriosità lombarda, l’Umberto Bossi, mantenuto prima dai genitori, poi dalle mogli, infine dagli italiani), si può arrivare a dire che il Primo maggio non è solo dei lavoratori di sinistra; affermazione che fa il paio con quella con cui insultò il 25 apriile, rifiutandosi di onorarlo, come il ruolo istituzionale gli imporrebbe, e andando a fare campagna elettorale a spese nostre a Corleone, per non infilarsi in un “derby” fra destra e sinistra.
Peccato che il 25 aprile segni la fine di una guerra mondiale e di un ventennio in cui la destra metteva in carcere, uccideva, esiliava, licenziava chi non era di destra o (nella scia di Hitler) ebreo: in base a quelle leggi, io e le mie figlie perderemmo il lavoro, perché non avremmo potuto fare i giornalisti o insegnare; avremmo dovuto vendere casa e se ci fosse andata peggio, saremmo finiti al confino o in carcere. Altro che il “derby” del nullafacente sparacazzate al veleno (e perché i comunisti in Unione sovietica?, ti obiettano. Come se l’oppressione di uno giustificasse quella di altri).
È PRIMO MAGGIO PER TUTTI, MA NON TUTTI HANNO PENATO PER AVERLO
Quanto al Primo maggio, è una conquista per tutti i lavoratori, di sinistra e di destra, ma ottenuta da quelli di sinistra, anche per quelli di destra. Quando ero giovane cronista a Bari, alla Gazzetta del Mezzogiorno, avevamo un fattorino che era una sorta di istituzione, di memoria storica, di poca cultura, ma immensa saggezza e narratore nato, un Omero del vicolo: abitava nella città vecchia, allora confine invalicabile per chi non cercasse guai. Nessuno ricorda come si chianasse davvero, cresciuto orfano, sposatosi prestissimo, padre di molti figli. Per tutti era: “Gesù” (quando chiedeva un aiuto, diceva: “fatelo per Gesù”). «Il Primo maggio», raccontava, riferendo delle condizioni in cui toccava celebrarlo nel ventennio fascista, «andavano a mangiare pane e alici a Torre a mare. Quando i fascisti ci chiedevano se fossimo lì per “la festa del lavoro”, già pronti a farci pagare le conseguenze, rispondevamo: “Nooo, festeggiamo solo quelli che vivono del lavoro”. A loro non sembrava la stessa cosa, e ci lasciavano stare».
Il Primo maggio è per tutti i lavoratori, ma non tutti i lavoratori hanno rischiato e si sono battuti perché ci fosse un giorno dell’anno a ricordare che il lavoro è un diritto e un dovere (i fascisti, protetti della Polizia, per chiudere la sede del sindacato di Peppino Di Vittorio, espugnarono con le armi Bari vecchia). Perché oggi si possa scegliere, come fosse una pizza (con le olive o senza?) il proprio Primo maggio, qualcuno è morto, molti sono finiti in carcere, altri perseguitati, licenziati, ma piano piano quella coscienza è divenuta universale.
VORREBBERO FAR TORNARE LA SCUOLA E LA SANITÀ PER I POCHI CHE POSSONO
A mio nipote sembra scontato andare a scuola, il diritto allo studio. Gli racconto che mio padre dovette studiare da solo, nei tempi morti dei mille lavori che doveva fare, per poter mandare a scuola, almeno fino alla licenza elementare o qualcosina in più, i suoi otto fratelli e sorelle minori; e che della vasta progenie della mia famiglia (materna e paterna), dei cugini della mia generazione, gli unici laureati sono mio fratello e mia sorella; io a vent’anni già facevo il giornalista e cambiai tre facoltà. Avevamo scarpe di gomma (vera gomma, non le cosine fighette di oggi), ma a ogni Befana, compleanno e onomastico, avevamo un libro in regalo. Ancora oggi, ci sono zone del mondo dove i bambini, non solo i ragazzi, devono percorrere chilometri nella foresta per raggiungere una capanna chiamata scuola, dove il gesso e una lavagna appaiono un lusso. E se sei ragazzina e vuoi studiare, può succedere persino che ti sparino.
La scuola per tutti (che oggi stanno distruggendo, per farla tornar a essere per pochi che possono permetterselo) è una delle più grandi vittorie di sempre.
E così la sanità (che oggi stanno distruggendo, per farla tornare a privata, a pagamento, per pochi che possono permettersi buone cure, prevenzione e assistenza). Da piccolo, ebbi la tbc infantile e feci le cure che mi permisero di venirne fuori: andavo a piedi e da solo da via Lupoli (a Taranto) all’ambulatorio che era su via Battisti, a metà strada verso piazza Ramellini e al ritorno sfiatavo come un mantice, per il fuoco che mi metteva nelle vene il medicinale che mi iniettavano. A casa, mi lamentavo. E mia madre mi raccontava di chi, lei ragazza, a Laterza, di quello era morto, e che eravamo fortunati.
Non voglio fare il cantore del passato, solo ricordare, almeno il Primo maggio, che quelle che oggi paiono banalità, diritti acquisiti, sono costate lotte, sofferenze di chi ci ha preceduto e ha avuto coscienza del dover migliorare, se non la propria vita, almeno quella di chi sarebbe venuto dopo. Nulla è scontato, i diritti vanno difesi ogni giorno, specie dai tanti cialtroni che, non avendo fatto nulla perché diventassero patrimonio di civiltà, li mettono a rischio irridendoli, negandone il valore, riducendoli allo squallore della loro anime e delle loro battute del cazzo.
LE PAROLE DI SACCO E VANZETTI
Dobbiamo un grazie a chi ci ha fatto un immenso regalo e una pernacchia a chi vorrebbe svilirlo. Vorrei dire quel grazie con le parole di due uomini che vennero uccisi innocenti sulla sedia elettrica e morirono senza predicare odio, pur avendone tutte le ragioni: Bartolomeo Vanzetti, piemontese, e Nicola Sacco, pugliese. Un amico di facebook, Alessandro, mi rimanda le parole del primo: «Io voglio: un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore, luce per ogni intelligenza». Il secondo (lo riporto in “Giù al Sud”), prima di essere arso vivo sulla sedia elettrica, perché sopravvisse alla prima e alla seconda scossa, scrisse al figlio: “Ricordati Dante, nel gioco della felicità, non prendere tutto per te, ma scendi di un passo e aiuta i deboli che chiamano al soccorso, aiuta le vittime e i perseguitati”.
Furono assassinati il 23 agosto del 1927, a Charlestown, in Massachusetts: dal presidente degli Stati Uniti ad Einstein, furono tanti a dire che quel delitto avrebbe disonorato il Paese che lo aveva commesso, per molte generazioni.
Buon Primo maggio a tutti. E ricordiamoci che nulla è stato gratis.
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