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I NOSTRI GIOVANI: CAMBIARE PAESE O CAMBIARE IL PAESE?

E i giovani? È la domanda che ci si fa quasi ogni volta, quando si organizzano le manifestazioni, i convegni, i dibattiti sulla Questione meridionale o contro lo scellerato progetto dell’Autonomia differenziata. Non sempre, per fortuna (ovvio che se si tratta di scuole, la faccenda non si pone), ma quasi sempre. E l’osservazione che segue è: bisogna trovare il modo di coinvolgerli di più.

Il che non è mai male, certo, ma rischia di nascondere la ragione principale: i giovani ci sono poco, perché abitano uno spazio in cui noi ci siamo sempre meno, che è il futuro. Noi abbiamo più tempo alle nostre spalle che davanti, loro lo hanno quasi tutto dinanzi ai propri passi. E devono riempirlo. Possono farlo soltanto se viene loro dato uno spazio per muoversi, da disegnare secondo i loro desideri, bisogni, aspettative, ambizioni. Questo spazio non è l’Italia, il Paese al mondo che mortifica di più i suoi giovani, al punto che, fatto 100 quello che in Europa si spende per un abitante del continente (istruzione, salute, sicurezza…), in Italia si investe 140 per un anziano con reddito e quasi sempre casa di proprietà e patrimonio e 40 per un giovane disoccupato, senza reddito.

Come dire che il nostro Paese brucia risorse per aggiungere ai garantiti, a danno dei precari: investe sul passato a spese del futuro. Che i giovani vanno a cercarsi altrove, perché ovunque nel mondo sono trattati meglio che nel proprio Paese. Verso il quale c’è così scarsa fiducia, che ogni famiglia punta a risolvere da sé le difficoltà, non insieme agli altri (questa sarebbe la politica, l’idea di appartenenza, condivisione), magari persino a danno dell’intera comunità, che non è vista come la soluzione, ma come ostacolo. Uno Stato nemico.

E tanto più nemico, quanto maggiore il bisogno: vedi la soppressione del reddito di cittadinanza, per condonare le tasse a chi non le paga, mentre l’83 per cento degli introiti fiscali grava sulle spalle (e sui conti) di lavoratori dipendenti e pensionati! Uno scempio unico al mondo.

Così, le famiglie si svenano per far studiare i figli “altrove”, dove troveranno più occasioni per la carriera, il lavoro; magari in università straniere che, pur di attrarre giovani nei loro Paesi, offrono condizioni di grande favore, contributi. A questo modo, il Mezzogiorno d’Italia, la terra situata nella fascia di latitudine con le migliori condizioni per lo sviluppo della vita su questo pianeta (e per questo, nei millenni, meta di immigrazione di popoli interi che si sono fusi e sovrapposti), per la prima volta nella storia, si desertifica, diviene un gerontocomio, tanto che si vuol prenderne atto e farne un business, popolandolo con pensionati di tutta Europa e del resto del mondo ricco, per dare una lunga ed ultima estate a chi è nell’inverno della vita.

Ogni essere umano è un dono ed è ben accolto in queste terre, per antica costumanza, civiltà, persino religione, anche prima del cristianesimo (l’ospite era ritenuto un dio in incognito; chi negava la sua casa allo straniero era punito dalla comunità). Ma svuotare le nostre regioni dei suoi giovani per destinarle solo ai vecchi è privarle di vita per arricchirle di morti. Un insulto. Però questo hanno costruito, specie negli ultimi decenni, i governi razzisti d’Italia; e il Sud che aveva la natalità più alta, la più bassa età media, la più lunga aspettativa di vita, per le condizioni ambientali e climatiche e l’impareggiabile alimentazione (quella dieta mediterranea per campare cent’anni), oggi sfiora la natalità zero e ha visto addirittura diminuire la durata media di vita.

Non è Paese per giovani l’Italia, proprio no. E la ferocia delle scelte politiche del potere razzista padano, con la complicità di una classe dirigente coloniale terrona, inducono i nostri ragazzi ad andarsene, soprattutto dal Sud, ma non solo dal Sud, perché hanno una vita sola e sono sempre più numerosi quelli che scelgono di non spenderla per migliorare le cose in un Paese che non li vuole, per di investire il loro tempo, il futuro, dove sanno di essere voluti, apprezzati, valorizzati.

Oh, certo, lo so che questo è politicamente sbagliato. Ma per fare politica, ovvero battersi per un progetto di comunità, di domani, serve la convinzione, almeno la speranza, che ne valga la pena. E i nostri giovani si sono rassegnati all’idea che sia tempo perso, lotta inutile e, il bilancio dare/avere di un tale impegno, sia solo a perdere: «Vi siete spolpato tutto!», ricordate il film della Cortellesi? Non gli abbiamo lasciato niente a figli e nipoti, se non quello che ognuno ha arraffato in proprio, senza preoccuparsi degli altri e del domani. È debolissima l’idea di essere un popolo.

E questo coincide con quella globalizzazione che rende tutto il pianeta una casa comune e a tiro di volo low-cost. «Mia nipote si è laureata con una tesi sull’uso delle mascherine», mi racconta un collega e amico. «Ha mandato duecento curriculum in Italia, a società che potevano essere interessate. Non ha ricevuto nemmeno una risposta, fosse pure di diniego. Ha poi messo la sua tesi online e due settimane dopo, dall’altra parte del pianeta, una multinazionale le ha proposto l’assunzione immediata, con incarico e compenso di rilievo, carriera programmata, ma con l’obbligo di restare lì almeno cinque anni».

Questo Paese muore di egoismo e di viltà: dei ricchi a spese dei poveri; del Nord a spese del Sud; degli anziani a spese dei giovani (nell’illusione anti-sociale di favorire o salvare almeno i propri figli e nipoti, fottendosene degli altri); nel consumo al presente di ogni futuro (ci stiamo mangiando tutte le uova, non avremo più galline). Ovviamente, questo avviene per linee di potere, il che aggrava i divari: il più toglie al meno, finché il sistema imploderà, se non rinsaviremo in tempo.

Una speranza viene, paradossalmente, proprio da quei giovani che non rinunciano all’idea di aver un futuro a casa propria o, persino, vi tornano dopo aver maturato magnifiche esperienze altrove. E creano quello che avremmo dovuto fargli trovare e gli abbiamo rubato o non siamo stati capaci di impedire che fosse loro rubato, perché chiusi nel nostro particulare. Riusciranno questi ragazzi a capovolgere l’infame sistema di cui siamo responsabili e qualcuno pure personalmente colpevole?

La vita ama sorprendere, nel bene e nel male. Amaro dirlo, ma il miglior loro alleato è l’anagrafe: chi ha costruito questo mondo che li esclude è destinato a sparire prima. Sperando che i nostri eredi non ci copino (rischio serio, perché copiare richiede una bassa spendita di energia e i pigri sono la maggioranza).

Così, quando facciamo incontri, manifestazioni, ci guardiamo intorno e ci chiediamo: «E i giovani?». Sono fuori, un po’ perché amano spaziare nel mondo, ma i più perché li abbiamo cacciati, con le nostre scelte o l’incapacità di agire politicamente in modo da ostacolarle. Nulla lo racconta meglio dei paesi dell’interno, specie del Sud, ma non solo del Sud: terre del silenzio che, fra Natale ed Epifania, a Pasqua e in estate, si riaccendono di voci, colori, ore notturne, qualche eccesso, amori che si riscoprono finché dura l’incontro e a volte persino durano, ma lontano da lì.

Questi uccelli migratori (golondrinas, rondini, erano chiamati i nostri emigrati in Sud America) sono i nostri figli e nipoti. Avevano un Paese, ora il resto del mondo. Annunciano le stagioni con il loro periodico ritorno. Il bivio dinanzi al quale siamo è il rischio che, piano piano, ci siano parenti e ricordi troppo lontani, perché valga per loro la pena e la spesa di tornare, a meno di riuscire a dare loro, finalmente, una ragione per non ripartire. Una ragione che si può riassumere così: non cambiate Paese, aiutiamoci a cambiare il Paese.

Cari ragazzi, vi chiediamo perdono, ma se “politica è sortirne insieme”, fateci un pensierino, perché ci sono un po’ di vostri vecchietti che cercano di raddrizzarla la rotta di questa nave dei folli, e per avervi intorno sono pronti a lanciare la dentiera oltre l’ostacolo.

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