…UNA VITA SI SPEGNE E SVELA I DRAMMI DI UNA CIVILTÀ CHE MUORE
La vicenda che segna il giro di boa nel racconto de “Il potere dei vinti”, ambientato in Salento, il mio primo romanzo (un saggio camuffato sulla sospensione umana fra una civiltà che muore e una che la soppianta), si svolge a Giurdignano, nel cuore del parco del neolitico, ricco di menhir e dolmen. Sarà quel fatto drammatico a mostrare il vero volto delle storie e delle vite coinvolte. A pochi chilometri da Otranto, a quattro dal mare, Giurdignano ti riporta indietro nei millenni. E il menhir citato è quello sulla piccola cripta affrescata di san Paolo, un unicum, perché contiene la sola rappresentazione esistente della connessione fra il culto del santo protettore dai veleni e il mito della Taranta, il ragno innocuo, a cui la tradizione popolare attribuisce il potere di sconvolgere la mente iniettando una musica.
Questo affresco, tra l’altro, rischia di scomparire: senza protezione, si sta sbriciolando e fra poco non ne resterà nulla, se non si interviene subito (ho sottoposto la questione al Collegio degli esperti della Regione; e spero che la sapienza e la passione di quei miei colleghi di “collegio”, possa indicare una strada percorribile con successo).
Sono stato a Giurdignano, per una conferenza in piazza, sulla Questione meridionale. E ho chiesto all’avvocato Donato Fanciullo, del Club per l’Unesco, e già due volte sindaco, di guidarmi in quello che chiama “Il giardino neolitico” e di raccontarne i pregi.
Ecco il suo contributo, di cui lo ringrazio.
[wbcr_text_snippet id=”1252″ title=”Firma a fine articolo”]
IL PARCO MEGALITICO DI GIURDIGNANO
di Donato Fanciullo
Giurdignano, luogo di antica memoria, conserva intatte le millenarie presenze neolitiche dei dolmen e dei menhir, tanto da meritare l’appellativo di giardino megalitico d’Italia.
Già percorrendo le anguste vie del paese, capita sovente di incontrare ai bordi della strada un menhir, lunga pietra conficcata nella dura roccia che, imponente, sembra vegliare sul lento scorrere della vita della gente del posto.
Il suo nome deriva dall’antico bretone e significa “Pietra Lunga”. Ve ne sono di varie misure e dimensioni, quelli di Giurdignano variano da due a quattro metri, come quelli della Cornovaglia o delle Baleari. E tutti hanno le facce più larghe, circa tre volte superiori alle facce strette, orientate verso nord.
Imboccata la strada rurale San Paolo, a circa cinquecento metri dal centro abitato, si giunge nel parco megalitico delle “Vicinanze”, dove i megaliti e le bianche pietre dei muretti a secco dominano la scena e, con la loro esistenza millenaria, sembrano voler ricordare che siamo entrati nella loro dimora e che siamo solo dei semplici visitatori. Percorse alcune centinaia di metri, si giunge in una zona denominata “Quattromacine” e ci si imbatte nel Dolmen “Stabile”. Il termine Dolmen, sempre nel dialetto bretone, significa “Tavola di Pietra” e, in terra d’Otranto, sono quasi tutti di piccole dimensioni e dalla pianta irregolare. La grande lastra di copertura è sostenuta da vari blocchi di pietre irregolari e multiformi. Il Dolmen Stabile di Giurdignano si caratterizza per i rivoli di scolo scolpiti sulla grande lastra dove, probabilmente, si celebravano riti sacrificali.
Sulla via del ritorno, che costeggia il bosco delle vicinanze, scorgiamo il menhir e la cripta di San Paolo, dove nel basamento del menhir è scavata una cripta in cui si affiancano l’immagine di San Paolo e della Taranta, unico esempio in Italia di sincretismo religioso. Questo monumento ci svela i motivi che convinsero l’imperatore Leone III ad emanare, nel 726 d.C., l’editto iconoclasta che proibiva la diffusione di immagini sacre e ne ordinava addirittura la distruzione. Ciò avvenne certamente per contrastare il fanatismo religioso, che vedeva le immagini sacre divenire oggetto di speculazioni di varia natura, ma avvenne soprattutto per contrastare l’uso dell’immagine di San Paolo. Le donne bizantine nascondevano tutte da qualche parte l’immagine di San Paolo, negli indumenti, nella borsa, sotto il materasso e, quando il peso delle loro esistenze diveniva greve ed insopportabile, prendevano l’immagine, la osservavano ed esclamavano: “Santu Paulu meu delle tarante, famme na grazia a mie e a tutte quante”. Tutto ciò che segue si chiama “Pizzica”.