La guerra la fanno gli uomini e gli uomini possono impedirla. Bisogna solo trovare come e avere il coraggio di farlo. Crederci.
Ma oggi il mondo appare incapace di stemperare la follia del gioco al “più uno” che si sa come va a finire. Ci si accontenta di arrivare allo strappo prima del del punto di rottura, per accusare dell’irreparabile chi farà l’ultimo “più uno”.
Sarà la guerra che nessuno vuole, ma nessuno ferma, come nel 1914, ci spiegano. Questa guerra, però, qualcuno la vuole e stavolta, gli Stati non muovono le pedine, ma sono mossi, pure i grandi, gli Usa, la Russia. Il mondo è cambiato, diviene globale, ma in modo convulsivo, non lineare, il che comporta la riproposizione di localismi, per recuperare quel che resta delle identità e sfuggire a una omologazione che appiattisce tutti sugli stessi modelli di vita.
Gli Stati governavano l’economia (ora è il contrario), finché il loro valore, in soldi, era maggiore di quello dei potentati, allora industriali. La produzione di merci era identitaria, aveva una bandiera, perché le cose portano l’impronta di chi le fa (la Ferrari, la pizza, sono Italia ovunque e per tutti, pure se la Ferrari divenisse araba e la pizza la fa un malese). L’alleanza fra Stati e produttori era il “sistema-Paese” (i nostri governi non potevano essere contro la Fiat e la Fiat era governativa), un agire sulla scacchiera mondiale come soggetto unico e riconoscibile. Perché le merci hanno un valore che non dipende dalla loro quantità, ma anche dalla qualità (che è “identitaria”: una scarpa made-in-Italy vale di più di quella made-in-China).
Con la globalizzazione, la finanza ha sostituito l’industria, i soldi non si fanno più con le merci, ma con i soldi (persino virtuali, vedi i bitcoin). La scacchiera su cui si gioca non è più la stessa: si è passati dalla fabbriche alla finanza, da un luogo fisico alla ricorsa con i fusi orari, 24 ore su 24, nelle Borse di tutto il mondo.
I soldi hanno solo un valore: la quantità; e non dicono nulla del possessore: un milione di euro è tale in tasca a chiunque (ci entra in tasca un milione di euro?). I giganti della comunicazione globale o persino della produzione di merci sono apolidi, anche quando paiono avere ancora una identità: la Apple è apparentemente a stelle e strisce, con gli iphone fatti in Cina e ora però sempre più indiani; il nuovo modello di Alfa Romeo è lanciato con nome italiano, costruito in Polonia, su pianale francese; molto made in Italy è realizzato in Asia, con marchio anglosassone; la più diffusa azienda italiana di divani non ha un solo artigiano tricolore, salvo che negli ossessivi spot pubblicitari.
In un mondo globale, “i padroni” non hanno patria, solo partecipazioni azionarie multinazionali, anche nel senso dei capitali che rappresentano. I bilanci di quelle colossali società sono multipli del prodotto interno lordo persino dei maggiori Paesi. E c’è ancora la regola dell’articolo Quinto: chi ha più soldi ha vinto. Se prima gli Stati si facevano la guerra con le loro aziende (sempre un confronto economico era), oggi i grandi gruppi usano gli Stati per fare la guerra. Perché il più muove il meno.
Questo cambia anche il tipo di risposta possibile: prima il cittadino poteva influenzare gli eventi con le sue azioni dal voto alle rivoluzioni. Oggi quel che pensa e fa conta sempre meno, tanto che, essendone consapevoli, i più non si prendono manco il fastidio di andare a votare. E se si riuscisse a mutare le cose in un Paese, non si otterrebbe quasi nulla: per non essere isolata ed esclusa dalla scacchiera internazionale, Giorgia Meloni deve garantire la continuità dei posizionamenti dell’Italia nell’Unione europea (contro cui si è sempre battuta) e nell’Alleanza atlantica.
Globalizzazione significa che il pianeta dovrà avere una guida unica. E a condurre il gioco è l’economia, già planetaria. Il potere tende a uno: gli stessi jeans per tutti, gli stessi telefonini, gli stessi desideri (che sfanno il mercato; meglio se imposti dalla programmazione delle aziende che inseguire i capricci dei clienti), lo stesso stile di vita.
Pensate cosa significa nella religione: tre monoteismi (cristianesimo, islamismo, ebraismo) in un mondo globalizzato sono troppi. Quindi si va verso un ulteriore sincretismo, con una religione che sia fusione delle preesistenti, la prevalenza di una sulle altre o varianti possibili fra questi estremi?
Dinanzi all’enormità di questi poteri, cosa può fare ognuno di noi, se persino gli Stati possono poco (i grandi) o niente (gli altri)?
Non resta che prendere atto del fatto che il gioco è cambiato: se l’economia comanda, ognuno di noi non viene contato, nel mondo globale, come europeo o cinese, italiano o tedesco, cristiano o islamico, destrorso o sinistrorso, colto o ignorante, onesto o delinquente, etero o no, maschio o femmina, bianco o nero. Queste categorie appartengono a contesti diversi e, soprattutto, parziali, perché riguardano solo aspetti, quasi sempre locali o personali, della vita. In un mondo globalizzato e diretto dai giganti dell’economia, siamo sulla stessa scacchiera solo quali consumatori. Il resto delle nostre identità è usato per venderci qualcosa o metterci gli uni contro gli altri: russi o ucraini; israeliani o palestinesi, credenti o “infedeli”.
Quindi reagire “per come siamo” equivale a rispondere nel proprio dialetto a chi parla un’altra lingua (o, per dirla terrona: dare a coppe, con la briscola a spade). E questo vale sia per le persone che per gli Stati, o le religioni. I giganti dell’economia sono pochi, ma enormi e hanno imposto il terreno del confronto: il proprio, il mercato. Dove, anche se non sembra, sono debolissimi, perché il loro potere deriva dall’essere accettati. dai consumatori. Quindi, il cliente, noi, siamo il mercato, e siamo l’intera umanità. Il numero è “il potere dei vinti” (titolo di un mio libro), ma i vinti non lo sanno o non ci credono.
Così, se replichiamo con le nostre identità, ci dividiamo e perdiamo; possiamo vincere solo se rispondiamo da consumatori, dimenticando chi siamo. Se ognuno si siede al tavolo con il suo nome e la sua storia, non avremo la soluzione; ci dovremo sedere da portatori di un interesse comune: vogliamo la pace. Ma non basta dire “No alla guerra”. Bisogna proporre come.
Esempio: l’interesse di tutti (almeno quello dichiarato) è che finisca la guerra russo-ucraina. Ma l’Ucraina ha interesse a conservare i propri confini (il piano di pace della Cina partiva da questo); la Russia ha interesse a non avere truppe e missili della Nato alla frontiera con l’Ucraina e si appella alla tutela delle popolazioni russofone oltreconfine; le quali hanno interesse a non essere trattate da nemico dal governo ucraino (novemila morti nella repressione in corso da anni, prima dell’invasione russa); l’Europa ha interesse ad avere l’Ucraina nell’Unione e la fine del conflitto.
Se l’esercito russo lascia l’Ucraina, che si impegna a non entrare nella Nato, mentre viene accolta nell’Unione europea, e alle regioni russofone, sotto l’egida di Bruxelles, si riconosce una forma di autonomia all’interno dello Stato ucraino (vedi il Trentino, in Italia, la Val d’Aosta), con una forza europea di garanzia per il tempo necessario, forse qualche speranza si può avere, perché sarebbe difficile per gli Stati Uniti osteggiare un piano di pace condiviso da tutti gli altri.
Però non sono gli Stati a guidare il gioco, ma l’economia (il capo del governo ucraino si rivolse a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, per avere la copertura satellitare del Paese e chissà che altro. Sono i giganti dell’economia che bisogna “convincere”. E possiamo farlo solo da consumatori. Abbiamo una sola arma: non esserlo più. Il boicottaggio.
Ma…: non si può smettere di comprare tutto e se la scacchiera su cui giocano i giganti è tutto il pianeta (globalizzazione), noi chi ci crediamo di essere? È vero, siamo quasi tutti (99 per cento) contro pochissimi (1 per cento), ma noi abbiamo solo il numero e loro tutto il resto.
Alla prima obiezione la risposta è tecnica: il boicottaggio ha effetti moltiplicati se, nel campo avverso, colpisce solo alcuni, non tutti. Così, ricadendo il danno su pochi, gli altri, paradossalmente, ne guadagnano. E questo li divide.
Alla seconda obiezione parrebbe più difficile replicare, ma abbiamo un precedente clamoroso: il Mahatma Gandhi elaborò questa analisi (infatti è sua, non mia). L’impero britannico vendeva alle colonie, in regime di monopolio, stoffe fatte con il cotone fatto coltivare ai popoli sottomessi. La ricchezza degli inglesi era direttamente proporzionale alla povertà imposta alle colonie (come in Italia il divario Nord-Sud). Gandhi concluse che, per non alimentare il potere che li teneva sottomessi, gli indiani non dovevano comprare stoffe dagli inglesi, ma tessere da soli il loro cotone.
Non si chiese: fa ridere che solo io faccia questo. E poniamo che anche cento, mille, diecimila mi seguano. Questo non inciderà sulla bilancia del potere e della ricchezza britannica. E come lo dici agli altri? Gandhi non aveva il web, i social, per comunicare, coinvolgere…
Ma la regola è: fa’ quel che devi, accada quel che può. Era la cosa giusta, la fece. India e Pakistan non furono più colonie. Eh, ma lui era Gandhi. Guardate che le persone poi divenute fari, furono quasi sempre criticate, derise, diffamate in vita. E quasi mai tanto considerate come dopo la morte (Gandhi fu ucciso da uno di quelli che aveva liberato; persino ai piedi della croce, mentre Cristo moriva, c’erano la madre e “l’altra Maria” e solo Giovanni, degli apostoli, mentre Pietro negava di conoscere il Maestro).
Persone ordinarie fanno cose straordinarie, dice la psicologia sociale. Non importa chi comincia e dove, ma cominciare. Una ragazzina svedese un giorno non va a scuola e decide di protestare per tutelare l’ambiente. Ce la siamo ritrovata alle Nazioni Unite a gridare ai grandi della Terra: “Ci state rubando il futuro. Come vi permettete?”. E ne è derivato un movimento planetario.
I giganti dell’economia guidano il mondo e non ci vogliono cittadini, ma solo consumatori. E noi rispondiamo da clienti insoddisfatti: non compro i tuoi telefoni, perché non voglio la guerra.
Proviamo a proporre come iniziare, contro chi. In Italia, come sapete, è pure sorto un movimento politico che va in questa direzione: Pace, Terra, Dignità.
Se vi sembra troppo poco: sapete qual è il seme più piccolo? Quello del baobab, l’albero più grande. Ne riparleremo. Aspetto vostri suggerimenti.