Il libro di Antonella Musitano sul poema de Lo Schiavo Di Bari
Pieno di cose preziose questo nuovo libro di Antonella Musitano, “Intendi, filglio, se vuoli imparar sapienza. Una dottrina morale, sec. XIII”.
È una meticolosa indagine su un testo fondamentale, contemporaneo del francescano Cantico delle creature, quindi parliamo in assoluto di una delle prime opere scritte in volgare. Eppure, pochissimo nota, nonostante il suo valore. Sono settantasette strofe (tre versi con il quarto abbreviato), sul modello provenzale (i termini che uso sono da vergognarsi, perché quelli giusti ci sono, ma preferisco fare una brutta figura, per guadagnare in comprensibilità. La dizione corretta sarebbe: strofa tetrastica del servente caudato). Si tratta di sagge raccomandazioni rivolte, nell’opera poetica, da Lo Schiavo Di Bari, al figlio.
Il guaio del nome, con molta probabilità, è una delle cause della rilevanza non adeguata in cui è stato tenuto questo capolavoro, forse penalizzato perché erroneamente attribuito a chi si pensava essere in stato di cattività. Al contrario, “Lo Schiavo Di Bari è stato un importante rimatore vissuto nel XIII secolo”, ma di cui “in realtà, non si sa praticamente niente”, pur se “autore, tra l’altro, di una Dottrina morale che ha influenzato e ispirato molti autori, suoi contemporanei e non”.
E, per dire della statura sociale de Lo Schiavo, ancora oggi, dopo quasi un millennio, sul muro esterno, facciata Nord, della cattedrale di Bari, sulla parete rotonda (detta la Trulla), è incisa una epigrafe che lo celebra (o, secondo una diversa lettura, onora un suo discendente, perché tale): “Hec loca contigua leti in tempore leta/ sunt tua silvester sclavo delapse poeta”: “Nel momento della morte, questi luoghi contigui sono tuoi, o Silvestro, discendente del poeta Schiavo”.
Il saggio è un manuale di educazione alla buona vita, sul come comportarsi in famiglia, con gli altri, le donne, nel commercio, nei doveri verso la comunità religiosa, quella politica, la cittadinanza e gli stranieri, gli altri Paesi. Un filone che andava per la maggiore, in quei tempi, pur se Lo Schiavo vi si aggiunge verso la fine.
Il valore dell’opera de Lo Schiavo di Bari è notevole, perché il suo volgare appare limpido come nuovo linguaggio, non percorso (come dove non era ancora emerso quale strumento autonomo) da latinismi o espressioni dialettali (vedi i più modesti componimenti contemporanei di area padana). E questo, pur nell’incertezza della trascrizione di alcune parole (“chuore”, “quore”, per dirne una).
Per questo, forse, il lavoro più affascinante di Antonella Musitano, è proprio il recupero delle fonti dell’idioma de Lo Schiavo, che “ci fa risalire alla preistoria della lingua italiana e alla individuazione di una lingua di sostrato come l’osco che, diffuso in quasi tutta l’Italia meridionale nel periodo pre-romano, ha inciso moltissimo non solo nella formazione della lingua italiana, se pensiamo che termini osci sono ‘transitati’ direttamente nella Divina Commedia di Dante, ma ha anche lasciato tracce e inflessioni in tutte le attuali lingue romanze”, si riassume nella prefazione di Sergio Fontana, presidente di Confindustria della Puglia.
Quando Roma riuscì a sottomettere i Sanniti, dopo due secoli di guerre, il latino si sovrappose alla lingua dei vinti che, però, continuarono a parlare la propria, nelle aree più interne, tanto che ancora sino a tutto il primo secolo dopo Cristo, se ne trovano tracce scritte.
Con la decadenza dell’impero romano, dal III secolo dopo Cristo, le lingue tacitate ma rimaste vive, riemersero. E l’osco, la cui area di diffusione, a partire da 5-6 secoli prima di Cristo, andava dall’Italia centrale a tutto il Sud (Campania, Molise, Lucania, Calabria, parte dell’Abruzzo e della Puglia), lo fece con particolare forza.
Al punto “che molti termini osci siano passati direttamente all’italiano”. Esempi: “padre” deriva dall’osco “patir”; e da “dunum”, dono. Una serie di studi accademici e no, di questi recentissimi anni, confermano alla grande quanto scrive Musitano, si vedano i libri del professor Gianfranco De Benedittis (“L’uomo sannita”, “I sanniti: una storia negata”, “I sanniti, una civiltà, una democrazia”) o di Paola Di Giannantonio (“La tavola osca”): “famiglia” viene dal sannita “famuli”; “cereali” dal sannita “kerres”, e così via.
Insomma, la lingua dei vinti tornò a vincere, quando le armi dei vincitori non furono più in grado di tenerli sottomessi. E il saggio de Lo Schiavo Di Bari ne è conferma.