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DAL LIBRO SULL’ITALIA PAESE PIÙ INGIUSTO DELL’OCCIDENTE

Una sintesi dei due capitoli iniziali del mio nuovo libro: “Tu non sai quanto è ingiusto questo Paese”

Queste pagine rappresentano la lista delle cose da fare per il governo, per ridurre quantità e qualità delle disuguaglianze fra gli italiani. Oppure troppi di loro non avranno più interesse a esserlo, italiani; non conviene, se corrisponde a un privilegio per pochi e a un “danno di cittadinanza” per troppi. Ovviamente, questo libro non è stato scritto con questo intento: ce ne siamo accorti alla fine, perché mentre andava in stampa, in un momento in cui nessuno avrebbe osato privare della guida un Paese devastato, come il resto del mondo, dalla peggiore pandemia da cent’anni in qua, un governo è stato fatto cadere. E le cose vanno così male, ma così male, che alla fine è arrivato lui: Mario Draghi. Colui che era stato sempre annunciato come l’angelo (vabbè, dai!, è un modo di dire) dell’ultima ora ha ricevuto l’incarico di formare il nuovo esecutivo, perché nessun altro ci riesce. L’ultima ora è arrivata. Non so come andranno le cose, queste righe stanno all’inizio ma sono le ultime, a tempo scaduto. So lo stesso, però, cosa avverrà: o un governo (quale che sia) sarà in grado di ridurre significativamente le disuguaglianze o il Paese si ritroverà dissolto. È già tale, dissolto, nelle menti degli italiani (in cui c’è stato sempre poco, avendoci educato questa Patria ad averne una sola di cui potersi fidare: se stessi, la famiglia, la categoria, il partito… sempre una parte, mai il tutto); ma senza una correzione seria delle disparità, c’è grande possibilità che finisca proprio di esistere.

Leggerete di analisi economiche che mostrano come la violenza sia direttamente proporzionale alle disuguaglianze fra ricchi e poveri, anziani e giovani, uomini e donne, regioni e regioni… E che da un certo punto in poi, questa violenza accelera in modo parossistico, quasi istantaneo, e porta tempeste sociali, guerra. L’Italia è il primo posto in cui tutto questo può succedere, in Europa e fra i Paesi più sviluppati.

Sì il debito pubblico, sì l’equilibrio fra le grandi potenze che gareggiano per sbranarti, sì l’ordine pubblico, sì la cassa integrazione, sì la scuola che… Continuate pure, l’elenco lo conosciamo. Sono le cose che un governo deve fare (lasciate stare che poi fanno quasi sempre altro, o niente, come è dimostrato dagli accumuli di incompiute). Ma in tempi normali. Ora l’enormità delle disuguaglianze impone che la loro eliminazione sia il primo compito, l’unico. O non ci sarà tempo e possibilità di fare più altro. Almeno in un Paese chiamato Italia. La campanella dell’ultimo giro è stata suonata.

La disuguaglianza è un’onda. Per quanto grandi siano le onde, una cosa le accomuna tutte: finiscono. Per quanto durature e feroci possano essere le disuguaglianze fra cittadini di uno stesso Stato, prima o poi verranno ridimensionate. C’è solo una differenza: la tempesta alza le onde del mare sino al massimo, mentre nelle società rompe e abbassa le onde della disuguaglianza, quando raggiungono il massimo (a Parigi, tempo fa, con una lama livellatrice…).

Se il vento non rinforza, la tensione superficiale dell’acqua tiene basse le onde capillari e le seda al calare della spinta, il mare torna piatto. Anche le comunità umane hanno una sorta di tensione superficiale, fatta di norme, diritti, comportamenti, convenienze e persino sentimenti (si induce il prepotente alla vergogna, quando il sistema è ancora sano, e questo lo frena; lo si imita e lo si aiuta per condividerne i vantaggi, quando la trama sociale è lacerata e l’interesse di pochi prevale su quello comune).

Se il vento carica, invece, trasferisce la sua energia alla superficie dell’acqua, spingendo su quelle increspature; così le onde capillari, dette anche “di gravità”, crescono in funzione diretta della durata e della forza ricevuta.

Nella nostra similitudine, quel vento degli interessi, che sembrava una debole brezza locale o di settore, travolge la rete moderatrice dei contrappesi sociali, rompe la tensione superficiale, diviene una buriana e coinvolge tutti i campi, innalza pretese sempre più immotivate. Per contagio ed emulazione diventano via via più grandi quelle che erano piccole disuguaglianze di reddito o privilegi ritenuti “normali”, accettabili. Piano piano, al troppo crescente per alcuni ci si abitua e ci si rassegna.

E più le disuguaglianze diventano sfacciate, più si estendono in ogni campo, per emulazione-contagio, con me­todi e schemi uguali, indipendentemente dalla dimensione delle disparità: le vedremo fra ricchi e poveri, fra anziani e giovani, fra uomini e donne, fra categorie e all’interno di quelle, fra Nord e Sud, fra persone con e senza disabilità. La disuguaglianza diviene l’ideologia fondante della società: il troppo e persino il tutto, come diritto.

Per quanto grande sia l’onda della tempesta perfetta, il vento prima o poi si esaurisce, il cielo si stanca di lacerarsi, il mare di galoppare, e si ferma. Prima o poi, anche la più disuguale società umana vuole pace, equità. E qualcosa accade: è allora che comincia la tempesta.

DISUGUAGLIANZE E VIOLENZA

Volete la guerra? Allora ditelo. Ma siate onesti: la guerra non è solo sparare.

Il rapporto Time to care – Avere cura di noi della Fonda­zione oxfam, pubblicato alla vigilia del World Economic Forum di Davos del 2020, lanciava l’allarme su un fenomeno di portata mondiale che potrebbe divenire ingovernabile: «Elevate e crescenti disuguaglianze» mettono «a repentaglio i progressi nella lotta alla povertà, minano la coesione e la mobilità sociale, alimentano un profondo senso di ingiustizia e insicurezza, generano rancore e aumentano in molti contesti nazionali l’appeal di proposte politiche populiste o estremiste».

L’Italia è il Paese più ingiusto dell’Occidente in molti campi, fra i più ingiusti del mondo, e «ha un primato in Europa: è il Paese a più bassa mobilità sociale», ovvero la probabilità di migliorare la propria condizione, «e a più alta disuguaglianza delle opportunità», ovvero le possibilità concrete, per chi sta in basso e ha buone doti, di vedersele riconosciute e salire socialmente, a prezzo di qualche certezza in meno di rimanere in alto per chi ha l’unico merito di esservi già, magari perché “figlio di”.

Tanto che «quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori», scrive il professor Peragine. E «va ancora peggio se guardiamo all’insieme dei fattori ereditati alla nascita, oltre alla famiglia. E quindi consideriamo il genere, l’area geografica di residenza, eccetera. In questo caso l’Italia ha il primato assoluto non solo in Europa ma tra i Paesi occidentali, superando pure gli Stati Uniti». E questa avremmo potuto risparmiarcela.

Le disuguaglianze interne raccontano il Paese, ci dicono come siamo, cosa pensiamo, qual è la nostra scala di valori, quanto teniamo a che la nostra comunità sia solida e quanto la sentiamo davvero nostra e non “altra” da noi.

Avere le disuguaglianze interne più grandi d’Europa significa che i ricchi sono più garantiti dei poveri; gli anziani con un reddito più dei giovani che ne sono privi; chi ha un lavoro più dei disoccupati; gli uomini più delle donne; i non disabili più dei disabili; il Nord più del Sud.

Ma la peggiore forma di disuguaglianza, quella che più facilmente sfocia in reazioni dure, violente, non è la differenza di reddito (se pensi che sia possibile migliorarlo, hai speranza), o di patrimonio (se pensi che, piccolo o grande che sia, potresti costruirtene uno che ti dia senso di protezione, hai speranza); no, la disuguaglianza più pericolosa è quella “di riconoscimento”, il sentirsi esclusi dal futuro, chiusi nella propria cella sociale. Ma mentre le prime forme di disuguaglianza puoi misurarle, quest’altra no, il che aumenta il rischio, «perché non puoi calcolarne la portata, se non dalle conseguenze. Si tratta di sensazioni, percezioni. È una disuguaglianza di riconoscimento, di stima, di attenzione e diritti negati. Non si ha idea della tensione fra regioni diverse, della rabbia che, per l’esclusione, il mancato accesso ai servizi, monta nelle periferie, nelle aree interne del Paese, a cui ho dedicato cinque anni della mia vita», racconta l’ex ministro alla Coesione territoriale (forse il migliore), Fabrizio Barca.

«L’Italia, per disuguaglianze di reddito e ricchezza, è fra i primi al mondo, ma a porre il nostro Paese nella situazione di maggior rischio è proprio il livello della disuguaglianza di riconoscimento, quel senso di esclusione dai diritti che da noi è molto più grave che altrove e che con forza sottolineiamo con il Forum Disuguaglianze Diversità da anni.

Un sistema che dà troppo a pochi e poco a tutti gli altri non è che “succede”: è una cosa che si vuole e che viene costruita con il potere e la politica, ovvero con la forza, e a volte proprio con la violenza. Poi, chi più prende dice che è giusto, perché se lo merita, e la disuguaglianza viene addossata quale colpa a chi la subisce. Quindi, se la condizione peggiore per un cittadino europeo, oggi, è essere di nazionalità italiana, meridionale, donna, giovane, disoccupata, single e madre (se lei non sta attenta, se non può mantenere un figlio, da noi che vuole?), “la colpa” è di chi ha il problema.

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