La Coppa America a Napoli, nel 2027! Un colpaccio. Ora si comincia a sapere qualcosa della strategia con cui l’amministrazione di Napoli, con il sindaco Manfredi (Pd) e il governo Meloni (centrodestra), hanno portato a casa il risultato, riuscendo a fare tutto senza che nulla trapelasse del loro lavorio. Tanto di cappello, gli va riconosciuto, perché, maoisticamente, “non conta che il gatto sia bianco o nero, purché prenda il topo”.
La concorrenza era forte (da Atene agli arabi, a Genova, alla spagnola Valencia che ha ospitato già due volte le regate). Ora, quello che si investirà per riqualificare le aree destinate ad accogliere il circo della Coppa America testimonierà delle reali intenzioni dello Stato di dare a Napoli finalmente un po’ di quel che merita. Il cuore dell’evento sarà la zona di Bagnoli, a ridosso dei Campi Flegrei, dove da sempre si aspetta il recupero ambientale del territorio dell’ex stabilimento siderurgico; mentre il campo di regata, fra Castel dell’Ovo e Posillipo, toglierà il fiato anche ai cuori di pietra: nel golfo più bello del mondo, all’ombra del Vesuvio, fra il lungomare di Parthenope e Capri. Non ce n’è per nessuno!
Ma si ha davvero idea di cosa significhi, in termini di immagine e di soldi?
La vela, ai più, sembra uno sport di élite, ed è vero il contrario: può essere il più economico ed anche la forma meno costosa di turismo nautico. Con una barchetta da meno di 20 piedi, scarsi sei metri (io avevo un cabinatino da 18, prima di passare a un 25 piedi che ha 53 anni), si può fare campeggio nautico per una vita e poi passare ai figli o nipoti la barchetta (una spesa da poche migliaia di euro, diluita in anni o decenni). Come la Formula1 rispetto alla nostra Panda del 2015, la Coppa America è la parte stellare della vela, per tecnologie e materiali dell’industria spaziale e costi in proporzione.
La sintesi è: il bullone è sempre lo stesso, il suo costo dipende dall’uso. Se è per il bracciolo del divano in salotto, costa un euro; se per l’automobile, dieci; se per la barca, cento. Ma se la barca è quella della Coppa America, ogni criterio salta: mille, diecimila, centomila… E l’economia che ne deriva e si muove intorno a quelle barche e a quell’evento è allo stesso livello.
La Coppa America è il più ambito e antico trofeo velico ed è conteso dal 1851, quando si ebbe la prima regata intorno all’isola di Wight (dove i romani piantarono vigne). Quella di Napoli sarà la 38ma edizione.
Sono un malato di vela, ho scritto tre libri su quel mondo e il mare, ed ero direttore di un mensile specializzato, quando la Spagna, per dare una possibilità di sviluppo a Valencia, ospitò lì la Coppa America. Vidi la sonnecchiosa e declinante città marinara cambiare. Pochi mesi prima della gara, con gli equipaggi già lì per allenarsi, da direttore di “Gente”, avevo portato Michelle Hunziker a bordo di Mascalzone Latino e quel geniale matto di Massimo Sestini l’aveva fotografata stando in cima all’albero e lei issata a un metro sotto di lui e in basso tutto l’equipaggio a guardare in alto (non le nuvole…)! Fu una copertina pazzesca.
Meno di un anno dopo, per le regate, ci tornai da direttore di “Fare Vela” e già era un’altra cosa: l’hotel extra lusso in cui mi ospitarono aveva un letto studiato per poligami: non saprei dire a quante piazze e i metri quadrati della tv a muro (vent’anni fa!) erano quelli di un monolocale. Un nuovo quartiere, palazzi recuperati o rifatti, la zona portuale risorta. E il riuso di edifici storici nel centro storico (con qualche inconveniente non del tutto risolto: venni invitato a una cena iper-selezionata, nella città vecchia, antica residenza riattata, pochi ospiti internazionali, la rock star del momento, la scrittrice di maggior successo, una grande attrice…, quasi tutte donne. Ogni piatto presentato con l’aria del Sacro Graal da chef pluristellato, vini da lasciare in eredità in una banca… A metà pasto, la scrittrice salta urlando sul tavolo, seguita dalle altre ospiti, terrorizzate: un zoccolone di almeno due chili scorrazzava per la sala. Il povero manager pubblico che aveva organizzato ostentava eroico disinteresse, continuando a descrivere la portata seguente. Ma nessuno mangiò più).
Gli armatori e gli sponsor delle barche di Coppa America (e un po’ pure gli equipaggi) spendono come se il valore dei soldi finisse a mezzanotte. Alcuni investono nella città della sfida (l’albergo di cui dicevo l’aveva fatto realizzare il patron di Alinghi, allora detentore della Coppa). Le strutture ormai esistenti, finite le regate, consentirono a Valencia di ospitare, per la prima volta, anche la Formula1 e nel 2010, di nuovo la Coppa America. La scorsa edizione si è svolta a Barcellona, che ha visto arrivare 2,5 milioni di persone ed extra-introiti per più di un miliardo.
Non è un modo di dire: per Napoli può essere l’evento della svolta. Una ventina di anni fa se ne parlò, ma la cosa non andò in porto: mancarono le volontà politiche. L’erede dei Savoia, Vittorio Emanuele, il papà, ora morto, di Emanuele Filiberto, si offrì di spendere la sua influenza per portare la Coppa America a Napoli. Scrissi su “Oggi” che facesse la cortesia di dedicarsi ad altro, visto che la città, dall’ultima volta che se ne occupò un Savoia, deve ancora riprendersi.
A decidere per Napoli, per regolamento, gli attuali detentori della Coppa: i neozelandesi che, sarà un caso, ma si possono intendere come “i più napoletani” fra gli anglosassoni. Grant Dalton, velista immenso e amministratore delegato del Team New Zeeland, ha un rapporto profondo e vero con l’Italia. E “mi deve” una vittoria a casa sua, Aukland.
Era circa trent’anni fa, lui e Guido Maisto erano gli skipper di Merit Cup, barca dei record messa in acqua per vincere la Whitbread, regata d’equipaggio a tappe, intorno al mondo. Ma non avevano ancora vinto niente. Silvia Berti, a capo della comunicazione del team, mi chiese di andare a toccare il timone della barca, perché avevo fama di portafortuna nel mondo nautico. Arriviamo a Sidney (24 ore di volo), di corsa al porto, ché la mattina c’era la partenza, per uscire con barca, io al timone, nella Felicity Bay.
Grant Dalton faceva facce strane: «Cosaaa?». E i nostri a spiegargli: ha accettato di venire dall’Italia per toccare il timone! Il poveraccio temeva lo stessero burlando. Quando capì che dicevano sul serio, scosse il capo: «That’s italian… You italians…». E fece buon viso a cattivo gioco. A Aukland arrivarono primi. Non era mai successo, fin lì. Centinaia di migliaia di persone pazze di gioia e lui, appena sbarcato sul molo, invece di abbracciare la moglie e i figli, viene da me, pacca sulla spalla, stritolata di mano: «Ehi man, you were right!» (avevi ragione). Conservo l’orologio che mi regalarono per gratitudine. Dalton ha detto cose meravigliose su Napoli.
La metto così: con la Coppa America, alcuni fra i più ricchi del mondo si sfidano e si incontrano in un posto. E quel posto sarà Napoli. E ognuno di loro invita gli altri ricchi come lui a sostenerlo e a bere uno sciampagnino insieme. Quindi la Coppa America concentra, in pochi chilometri quadrati, una quantità di paperoni che manco a Wall Street. I quali tendono a investire.
Se il governo, lo Stato, non farà altrettanto, per infrastrutturare Napoli a livello di una tale unica opportunità, avremo buttato una delle migliori occasioni di sempre, perché se riparte Napoli, riparte il Sud; se riparte il Sud, il Nord vede arrivarsi in casa (dati Banca d’Italia), senza fare niente, 41 centesimi ogni euro investito a Sud. Si pensi alle montagne di miliardi buttati per opere incompiute delle Olimpiadi invernali Milano-Cortina, per le Pedemontane costose e vuote, per il Mose, per l’Expo…
Questa volta non si deve sbagliare. O potrebbe non esserci una prossima volta.

2 Comments
Giuseppe
Un pezzo della tua vita raccontata ad un uomo che il mare lo vede dell’altopiano della murgia barese. È un piacere leggerti, ascoltarti, riascòltarti. Un abbraccio
Pino Aprile
Grazie, grande Pino co-murgiano e compaesano. La Murgia, per gli orizzonti, è come il mare: educa allo sguardo lungo, che va lontano e, al tempo stesso, affascina e fa paura. Un abbraccio a te