La canzone di Eugenio Bennato sulle grandi e storiche acciaierie di Mongiana chiuse per mano sabauda è una tappa importante del cammino per il recupero dell’identità soffocata. Non che altre fossero da meno (“Ninco Nanco”, “Il sorriso di Michela”, “Mille”…), ma questa diviene subito un mantra e alza il livello del significato. Perché risveglia qualcosa di profondo.
Nessun popolo marcia in silenzio. Ma al silenzio può essere indotto e ridotto, perché tale è la condizione che storia impone ai vinti. Il pericolo più grande che il vincitore corre è che il vinto ricordi chi era e lo confronti con quello che è. La memoria è il peggiore nemico degli oppressori.
Per questo, la storia dei vinti viene denigrata, diffamata, perché si convincano a dirsene estranei (nessuno infanga quella del Sud, più di alcuni autori e storici meridionali che vogliono scrollarsi di dosso “la vergogna” della loro origine), e che fu una fortuna perderla ed esser immessi in quella dei vincitori. Ovviamente, non alla pari, ma da “aggiunti”, non protagonisti ma gregari, esecutori non decisori.
A quel punto, la vittoria è vera, stabile: il vinto non ha più passato e “si sistema” in quello che gli viene consegnato e non va più indietro del momento in cui è stato “incluso” in quello del vincitore. Ma chi possiede il tuo passato, possiede il tuo futuro. Il rapporto di potere è fissato per sempre.
Finché qualcuno non comincia a ricordare. Non sempre accade: ci sono popoli nel buio della memoria, da secoli, millenni, nel senso che persino quello che si salva viene considerato come parte deteriore, non spiegata, spesso ridotta a folclore, che affiora da un ieri indistinto.
Mentre il vincitore si celebra con i libri di storia (di fatto, l’ufficio-stampa del potere), i monumenti, i nomi delle strade, i riti ufficiali, la cultura di servizio, il vinto si narra nelle tradizioni, i canti popolari, le leggende, la letteratura, il teatro. La consapevolezza è una scoperta quasi sempre graduale e contrastata: si stenta ad accettare l’idea di mettere in discussione tutto quel che si credeva di sapere e da tutti condiviso come vero; si cerca un sorta di compromesso, interdetti, confusi, ma è tenere i piedi in due scarpe. Alla fine, o ci si chiude nel rifiuto della verità che azzera le basi della “conoscenza comune” sull’argomento, o si prende atto che bisogna ripartire dalla base, ci si sente al tempo stesso traditi e più liberi. E la libertà chiede di essere responsabili.
La porta della memoria è quasi sempre la musica, perché è una lingua che non ha bisogno di traduzione e raggiunge strati profondi dell’anima, sotto la soglia della consapevolezza, portando una forma di conoscenza non esprimibile con le parole (comunichiamo con i suoni da milioni di anni, da prima che l’evoluzione ci rendesse umani; e solo da poche decine di migliaia di anni con le parole).
E quella conoscenza altrimenti inespressa, affiora magari senza nemmeno una chiara visione di cosa significhi. Detto diversamente: con la musica, si dice più di quello che si sa, perché questo straordinario strumento di comunicazione trasporta, con quello che si sente, un sapere profondo e inconsapevole.
Quando Mimmo Cavallo scrisse “Uh mammà”, che sembra descrivere l’invasione del Sud da parte delle truppe sabaude, la sua personale opera di revisione storica risorgimentale non era iniziata, nemmeno la sospettava, ma la musica aveva già detto quello che lui non sapeva di sapere. Dopo la pubblicazione di “Terroni”, Mimmo, con piena consapevolezza e informazione, compose le dodici strepitose canzoni della trasposizione teatrale del libro. Fra quelle e “Uh mammà” c’è perfetta continuità, non trent’anni di distanza. Insomma: la musica aveva preceduto il suo autore.
Eugenio Bennato, sin da ragazzo, ha dedicato la vita al recupero delle radici musicali del Sud e di quello che le rende immortali. Il valore della sua ricerca è talmente alto e riconosciuto (non come merita, cosa che avverrà sempre più con il passare del tempo), che rappresenta ormai una “scuola” in incessante crescita e sempre più praticanti.
Eugenio è, di fatto, uno degli autori (musicista e poeta), se non il principale, che più ha portato la musica “etnica” fuori da una sorta di circolo di conoscitori. E parliamo di un campo sconfinato che, a vari livelli, va da Matteo Salvatore, Otello Profazio, Rosa Balistreri, al gran lavoro di Roberto Simone, la Compagnia di Canto popolare, dopo lo sdoganamento (anche) della pizzica di Ernesto de Martino, sino alla celebrazione mondiale della Notte della Taranta.
Ma cosa ha di diverso l’arte di Eugenio Bennato, per farne un tale capo-scuola? La musica è viva, nel senso che tale resta anche quando è solo replica, ripetizione di se stessa. Ma la vitalità è un’altra cosa: è la capacità di evolvere da quello che si è, restando se stessi. Pino Daniele faceva rock, jazz, la qualunque, ma tutto quello che percorreva nello sterminato universo della musica, era napoletano.
Eugenio Bennato è partito dalle radici, è andato a scavarle (senza voler fare un mestiere che non è il mio, quale che sia la ricerca, è sempre in se stessi che si scava), ha scovato gioielli dimenticati che rischiavamo di perdere, li ha fatti rivivere. Per anni li ha riproposti e tanti lo hanno seguito e ancora lo fanno.
Quindi, quella musica è tornata a vivere. Ma che quella di Bennato sia anche vitale, vuol dire che da quella e con quella lui ha costruito. A distanza di decenni quello che fa è inconfondibilmente suo ed etnico, ma sempre più universale nell’uso di echi ed espressioni di ogni tradizione musicale, specie mediterranea (dall’impareggiabile “Che il Mediterraneo sia” a “Mon père e ma mère ”, per limitarsi a due). Insomma: la musica di ieri è bella e da riproporre, riascoltare, ma come ogni essere vivente, deve evolvere, diventare la musica di domani, conservando la radice e il carattere.
Questo è il percorso artistico di Eugenio. E lo si ritrova, anche nei temi: da “Brigante se more” a “Ninco Nanco”, “Il sorriso di Michela” non sembrano passati più di trent’anni; la differenza è che quando, con Carlo D’Angiò, componeva la prima, poi divenuta l’inno del Sud ribelle, Eugenio non aveva idea che stesse dando vita a qualcosa che avrebbe riassunto l’anima e la storia riscoperta del Sud; nel creare le altre, invece, c’era piena consapevolezza del cosa e del perché.
“Mongiana” rappresenta un passo ulteriore: si resta in tema, ma si passa da figure individuali (eroi, eroine) travolte dalla storia, alla storia. Dalle vicende di singoli a quella di tutti. Le acciaierie di Mongiana furono opera collettiva, di un potere, uno stato, un popolo, e segnavano il valore di una civiltà che poteva piacere o no, ma mostrava quello di cui era capace. “Ferri di Mongiana”, indicava la qualità massima dell’acciaio.
La canzone è nata dalla visita di Eugenio allo stabilimento restaurato, dopo un secolo e mezzo (la Calabria, come scrisse chi studiò e fece il restauro, l’architetto Gennaro Matacena, è il paradiso della archeologia industriale, visto che con l’arrivo dei piemontesi, le fabbriche fecero tutte brutta fine, non solo in Calabria, in tutto il Sud). Lo stupore, l’emozione, un mondo grande e ignoto che si rivela… So, conosco quei sentimenti, li ho vissuti 44 anni fa, quando andai per la prima volta a Mongiana; ne fui folgorato, intervistai chi vi si dedicava, recuperai libri e documenti; trent’anni dopo tornai a intervistare i figli di quelli che avevo sentito anni prima; ne scrissi un capitolo in “Terroni”.
La canzone su “Mongiana”, quindi, segna il passaggio “da persone a popolo” ed è di importanza cruciale, perché porta un contenuto molto più denso, una sorta di dichiarazione politica (di quale comunità, quale storia, quale disegno del vivere insieme agli altri erano filiazione i briganti, Ninco Nanco, Michelina De Cesare?).
Ma vorrei dire, senza alcuna pretesa di competenza musicale (che non ho), una cosa anche sulla canzone in sé che, come risposi a Eugenio, quando mi mandò la traccia di “Mongiana“ appena nata, ha il suo marchio inconfondibile. La frase musicale è ridotta all’essenziale (l’apparente semplicità è una conquista), tanto che al primo ascolto, sembra generare attesa di qualcosa che non arriva. Ma è proprio questa, alla fine, la forza di “Mongiana”: quella frase ti entra in testa e non esce più ed esalta il testo, che è potente. Racconta di noi, di quello che non sapevamo di noi, che non dovevamo sapere.