Con la ruspa, Matteo Salvini, disgraziatamente ministro dell’Interno, non risolve i problemi, li sposta da qui a lì, per raccattare voti a nostre spese e mirare al colpaccio di togliere il governo della capitale ai cinquestelle. A Roma come in tante città italiane ci sono accampamenti urbani che sono ricettacolo di miseria, disperazione, ultima speranza, disagio sociale, spesso violenza, talvolta pure criminalità. Alzi la mano chi ne vorrebbe uno sotto casa. Quindi, chi aveva il “Baobab” dinanzi al portone (o, comunque, «Perché proprio qui?»), non può che trarre un sospiro di sollievo.
Ma il problema vero qual è: l’accampamento o le cause che lo generano? Quindi come si risolve la cosa: radendo al suolo la bidonville o facendo qualcosa che dia una possibilità diversa a quanti non ne hanno una più decente di quella? È chiaro che l’accampamento fra rifiuti e fango è l’ultimo approdo. Ma cosa accade se lo si rimuove con le ruspe? Chi era lì subisce un danno, perdendo pure le sue misere cose, e andrà a sistemarsi altrove, in condizioni simili a quelle e persino peggiori di quelle.
Il problema è risolto? No, solo spostato e un po’ peggiorato. La povertà è conseguenza di scelte politiche ed economiche che disegnano una scala sociale e chi ne è al fondo viene incolpato della sua condizione (il modo migliore per assolvere chi ce lo ha messo). Non è per buttarla sempre sullo stesso tema, ma certe cose vengono da lontano, figlie di diversa civiltà: nel Regno di Sardegna (e in Gran Bretagna non era diverso), la povertà era un reato: si finiva in galera per “vagabondaggio” (in Inghilterra ci fu chi propose di sterminare i poveri per eliminare la povertà).
Nel regno delle Due Sicilie, si costruirono gli alberghi dei poveri, perché non stessero per strada. Ma si insegnava loro un lavoro, si davano regole; e i piccoli, gli orfani, venivano educati al vivere e all’agire in comune, con la musica. Non erano “buoni” i Borbone; molto cattolici, certo, ma furbi: la base della loro politica, in questo e altri campi (il lavoro, specie nell’industria: ché nelle campagne le condizioni erano peggiori e meno controllabili), era l’Economia civile, il cui fine era “la felicità del popolo”, perché se il popolo sta bene, non fa la rivoluzione (provvidero altri: «La rivoluzione non c’era, la portammo noi», disse Nino Bixio).
Questo non vuol dire che la gestione del disagio sociale, aggravato e complicato dall’arrivo di ondate di migranti, sia facile. Ma di sicuro non è la ruspa la soluzione. Non lo sanno Salvini & C.? Certo che lo sanno, ma, come confessò il suo compare leghista Maroni e come disse Bossi nella sua autobiografia, il razzismo porta voti e loro lo usarono. E, visti i vantaggi, non hanno smesso.
La strategia della ruspa è l’ideale per strappare Roma al M5S: tutti accusano di inefficienza la sindaca Raggi. E a Roma Salvini conduce la sua campagna: ha cominciato con gli sgomberi di palazzi abusivamente occupati (non quello in cui si sono installati, da anni, i suoi “camerati” di Casapound) e ora rade al suolo gli accampamenti, avvertendo che il Baobab è il primo di altri 23 interventi simili, già in programma (fra in quali, nuovamente, non sembra incluso quello abusivo di Casapound, a meno di sorprese).
Quindi: un accampamento dopo l’altro, una zona dopo l’altra, Salvini diviene l’eroe con la ruspa che “spazza Roma”, guadagnando la riconoscenza degli abitanti che vedono “risolto” il loro problema. Finita la sceneggiata, passate le immagini del bliz ai tiggì, gli accampati cacciati da un posto, andranno in un altro (o ritorneranno lì: il Baobab era già stato sgomberato 22 volte). Così, mantenendo vivo il problema, e anzi moltiplicandolo e peggiorandolo, Salvini erode il bottino elettorale cinquestelle a Roma, ormai fragile di suo.
Lui non sta al ministero per eliminare guai nostri, ma per accrescere voti suoi (infatti, al ministero non lo si vede quasi mai: è sempre in giro in campagna elettorale).