“Briganti”, su Netflix: una serie che molto liberamente si ispira a personaggi della resistenza armata all’invasione del Regno delle Due Sicilie da parte dell’esercito sabaudo e passato alla storia con il termine denigratorio di “Brigantaggio”. Apriti cielo: questi sarebbero capaci di parlar male di Garibaldi!
E senza che se ne fosse manco trasmessa la prima puntata, su Huffington Post, a firma Leonardo Cecchi (che scopro essere stato “social manager” del Pd), aveva già scritto tutto il male possibile su una serie di cui non sapeva niente. E sparato sui “neoborbonici” (che ci sta sempre bene). A leggere il testo, appare evidente che di quanto accadde nella guerra di annessione del Regno delle Due Sicilie, l’autore conosca solo la versione ufficiale e massonica imposta come unica. Un po’ come: i cattivi erano gli indiani musi rossi e i soldati blu portavano la civiltà e si difendevano (con i cannoni dalle frecce).
Premesso che l’unità del Paese era inevitabile, perché la rivoluzione industriale aveva bisogno di Stati nazionali per svilupparsi, il modo in cui si fece l’Italia fu il peggiore: centinaia di migliaia di meridionali massacrati, incarcerati, deportati, il saccheggio dei beni, il furto delle terre demaniali, la chiusura delle fabbriche, l’imposizione di tasse squilibrate a danno del Sud, più una per far pagare ai vinti le spese della guerra subita e la trasformazione del Mezzogiorno in colonia interna (tale ancora oggi).
Si perse l’occasione di far nascere non solo uno Stato, ma un Paese e un popolo, se ancora oggi i veneti spesso si sentono solo veneti, i napoletani, siciliani e sardi idem, per non dire dei valdostani, dei sud tirolesi… Il che è giusto che sia, perché non si possono sopprimere quelle identità millenarie, (ma si è cercato di farlo o comunque di sminuirle, denigrarle, come ancora accade per i terroni), e per questo sono vissute da tanti in opposizione a quella italiana che pur tutte le comprende.
Ancora oggi non si deve dire cosa fu fatto davvero al Sud, per unificare l’Italia, nonostante molti autori e storici italiani e no, pur fra i più eminenti e credibili, lo abbiano documentato nel corso di oltre un secolo e mezzo (a quanti hanno aperto gli occhi i libri di Denis Mack Smith?). E persino quando quei fatti innegabili vengono riconosciuti, si propone di tacerli “per amor di patria”, che potrebbe non reggere allo choc della verità, vedi l’invito alla “terapia dell’oblio” di intellettuali quali Corrado Augias e Paolo Mieli.
Nulla deve incrinare il racconto quasi fiabesco e di matrice massonica del Risorgimento, quale presunta rivoluzione nazionale, su cui si basa lo strapotere delle logge nel nostro Paese, usate come strumento dalla Gran Bretagna, che fu la regista dell’unificazione d’Italia: scelse Garibaldi per accendere la miccia, gli fornì soldi, armi, l’appoggio della flotta militare, la legione straniera inglese guidata da un ufficiale statunitense e l’azione diplomatica per impedire che gli imperi russo e austro-ungarico “si intromettessero”.
Che fine farebbe il mito fondante del nostro Paese, se lo si dicesse così? Quella che fecero le certezze storiche di matrice hollywoodiana sull’epopea del West e “l’eroico” generale Custer mutato in massacratore razzista, dopo il film “Soldato blu”. Per questo sembra esserci una sorta di terrore istituzionale per ogni racconto difforme dalla versione “antica e accettata” (formula dei grembiulini: non è una mia fissazione, fu la Massoneria a rivendicare il suo ruolo nell’unificazione, sia con il famoso convegno a Torino una quarantina di anni fa, sia con l’ex gran maestro Corona. Il che legittima la domanda: docenti di storia “affratellati” si attengono, nell’insegnamento, all’obbedienza massonica o ai canoni della loro professione?).
E se dopo aver descritto i “briganti” (gran parte erano soldati borbonici e patrioti) come criminali sanguinari, qualcuno pure cannibale, quel tribunale potentissimo della fiction e dei social ne facesse dei combattenti per la libertà? O qualcosa di simile agli indiani, agli scozzesi di Braveheart?
Così Cecchi mette sull’avviso da una “narrazione tossica”, e le “castronerie storiche” (credevo parlasse di quelle citate da lui!) come “l’eroismo o il patriottismo dei briganti”.
Quindi non ha letto i rapporti degli stessi memorialisti dell’esercito sabaudo di occupazione, che descrivevano con sorpresa o malcelata ammirazione, la serenità e la dignità con cui andavano al patibolo i cosiddetti “briganti”?
Non ha nulla da obiettare sulle stragi compiute al Sud dai “fratelli d’Italia”, con la scusa del tricolore. Quindi non ha letto niente di Gramsci? Niente dei resti della relazione Massari scovati da Franco Molfese nella Biblioteca del Parlamento? Capisco abbia evitato di consultare i documenti inediti, specie del ministero della Guerra e altri enti statali, pubblicati in “Carnefici” da me, vade retro, ma quelli del professor Giuseppe Gangemi, docente di Metodologia della ricerca scientifica all’università di Padova, che in “In punta di baionetta” e “Senza tocco di campane”, li confermano?
Quanto alla presunta arretratezza del Sud rispetto al Nord, ignora i lavori dei docenti universitari Paolo Malanima e Vittorio Daniele che la smentiscono con i dati del ministero del Tesoro, da cui risulta che i braccianti più poveri erano nella provincia di Milano e quasi un giovane padano ogni due era scartato alla visita di leva per rachitismo e altri mali da denutrizione (al Sud si scendeva a uno su cinque). E, solo per citare uno straniero, tace o non sa quello che lo storico John Anthony Davis scrive in “Napoli e Napoleone”, sul fatto che la maggiore povertà del Sud preesistente all’unificazione fu inventata, specie da Benedetto Croce, per “spiegare” le condizioni sempre peggiori in cui sprofondò il Mezzogiorno “unitario” grazie alle amorevoli cure dei fratelli d’Italia?
E quindi non conosce gli studi della Banca d’Italia sul tessuto industriale del Regno delle Due Sicilie, che aveva più addetti che il resto d’Italia messo insieme e, stando all’inchiesta storica dell’università di Bruxelles, per conto dell’Unione europea, lo Stato borbonico era, rispetto agli altri preunitari, l’equivalente della Germania oggi in Europa?
Peccato, perché magari questo aiuterebbe Cecchi a capire come mai, prima dell’Unità, dal Nord emigravano al Sud, specie a Napoli e in Sicilia (tanto che paesi del Comasco hanno ancora oggi termini siculi nel dialetto lombardo: Davide van de Sfroos lo narra in modo irresistibile) e al Sud, sino alla calata sabauda, in tutta la storia dell’umanità, non c’era mai stata emigrazione ma soltanto immigrazione.
Si può capire che sia più facile adagiarsi nella versione “antica e accettata”, ma un piccolo sforzo per guardare oltre la siepe andrebbe fatto. Regge sino a un certo punto la scusa che la sistematica distruzione o l’occultamento di documenti scomodi ha reso la cosa non proprio agevole.
Il professor Umberto Levra, docente emerito di storia risorgimentale all’università di Torino e presidente sia dell’associazione degli storici risorgimentali, che dell’Istituto storico del Risorgimento ha mostrato come il controllo politico della storia sia stato di tale ferocia, da rendere impossibile la ricostruzione veritiera degli eventi risorgimentali, per manipolazione e distruzione delle carte. Ancora decenni dopo l’Unità, la legge impediva di consultare i documenti superstiti, posteriori al 1815.
E il colonnello Cesare Cesari, direttore degli Archivi militari e autore di un interessante volume sul Brigantaggio, nel 1920, scrisse che i documenti non distrutti furono resi introvabili mischiandoli con altri estranei, “come si fa con un mazzo di carte”.
Quindi parrebbero avere gioco facile gli addetti alla narrazione “antica e accettata”, tanto che si insegna ai nostri studenti che la guerra risorgimentale fu combattuta da “italiani” che “facevano a pezzi” “borbonici e briganti”. I quali, quindi, non erano italiani? La raccontano così all’università: al Sud, docenti meridionali! E se erano solo delinquenti, come mai dovettero trasferire gran parte dell’esercito sabaudo al Sud e nonostante questo ci misero dieci anni a eliminarli? Trascurando di dire che sia Garibaldi, sia il ministro Liborio Romano a Napoli, sia i governanti unitari usarono il crimine organizzato per imporre il nuovo potere (da lì nacque la mafia come oggi la conosciamo: lo insegnava Rocco Chinnici).
La serie di Netflix non ha rigore storico? Perché i film western sì? E quelli sulle camicie rosse e Garibaldi con l’aureola? Per il potere statunitense nel mondo, ha fatto più Hollywood che la grande macchina bellica Usa: nei film, gli americani vincono sempre; in Viet Nam, Afganistan, perdono contro gente armata di quello che trova e senza scarpe
Ben venga, quindi, una serie che si rifà al periodo del Brigantaggio, senza pretendere di rifare la storia. E che basti così poco per terrorizzare i trombettieri della versione ufficiale, rende l’idea di quanto fragile sia quel racconto aggiustato a fini politici, per tenere il Sud in condizione coloniale e sedato. Non dimentichiamo cosa accadde al coraggioso film di Pasquale Squitieri “Li chiamarono briganti”: acquistato dalla Rai, per non essere trasmesso. Circolava in copie clandestine amatoriali.
Dinanzi alla narrazione ufficiale e davvero tossica della nostra storia, serie come “Briganti” su Netflix sono soffi di aria fresca. È la ragione per cui ho scritto “La brigante bambina”, romanzo storico appena pubblicato, in cui gli episodi sono veri, i personaggi (non tutti) liberamente adattati.
Un libero adattamento dichiarato. Quindi, più onesto di altre versioni.
4 Comments
Vincenzo Mastropietro
Bellissimo oltre che utile come riassunto di tante informazioni. Speriamo che L. Cecchi (e chi lo appoggia) si ravveda.
Pino Aprile
Ci credo poco, ma ci spero
Mirko
Lo storico Tommaso Pedio in un suo studio sul brigantaggio, disse che sarebbe finito subito se il nuovo ordine sabaudo avesse mostrato comprensione per le problematiche del Sud, se non avesse instaurato un brutale regime di occupazione militare.
Pino Aprile
E aveva, ovviamente, ragione. Persino massacratori come Bixio lo gridarono in parlamento, inutilmente