Da oggi ho una colpa in più: Sergio Zavoli è morto, senza che io andassi a fargli visita, come avevo promesso. Era contento quando glielo dissi. “Pino ci viene a trovare”, disse alla moglie. Non abitava più vicino casa mia, si era trasferito sul lago di Bracciano, “via Londra 10”, mi dettò. Mi scappò un sorriso: “Con te, niente è banale”, dissi (lui avrebbe forse preferito “corrivo”), a Londra, al n. 10 c’è il capo del governo, non c’è nemmeno bisogno di aggiungere il nome della via, Downing street.
Ma ora una cosa, ora un’altra, ho sempre rinviato. Dai Castelli Romani ci vuol meno per andare a Napoli che sul lago di Bracciano. E per me, Sergio era e resterà immortale. Era un perfezionista a livello maniacale. “Quando lavoravamo a “Viaggio nel Sud” (io mi occupavo dei testi), notai che lui aspettava sempre che gli altri uscissero, prima di toccare la macchina da scrivere. Infilava un foglio, mi chiedeva una cosa che mi sembrava qualsiasi, perché spesso non legata a quello di cui ci stavamo occupando, e scriveva una, due, tre parole; poi restava un po’ fermo, infine, mormorava qualcosa tipo “Che c’entra?”, cancellava e cominciava a pestare sui tasti.
A volte, lasciava una parola e le altre no e a quella attaccava il resto, costringendolo alla coerenza con la parola salvata. Mi vide in faccia la domanda che non osavo fargli (nonostante l’amicizia, avevo una certa soggezione nei suoi confronti) e mi rispose: “Non so scrivere su un foglio bianco”.
Aveva deliziose contraddizioni. Quando veniva a mangiare a casa nostra, premetteva: «Voi non privatevi per colpa mia, ma sì a tua moglie che per me solo il miglio, un cucchiaio di riso». Ha sempre dovuto combattere con la dieta. Poi, come da copione, calava (“solo un assaggino!”) nella qualunque ipercalorica che c’era sul tavolo e spolverava tutto. Non so se lo sapesse, ma era quello che faceva Fellini che invitava a cena in un ristorante di Grottaferrata, ordinava per l’ospite (“Io non posso, sono a dieta”), poi mangiava quello che aveva proposto alla commensale.
A volte, entrava in certi suoi silenzi, da cui non si riusciva a richiamarlo al presente; come se guardasse verso un altrove interiore, che vedeva solo lui. Erano i momenti in cui andava, credo, a rincorrere i versi delle sue poesie. Io restavo muto, attendendo il suo “ritorno”. Un giorno, forse apprezzando la mia pazienza (ma era rispetto: i silenzi sono quasi sempre carichi di cose), mi confidò: «Una volta, da ragazzo, rimasi a lungo a fissare dalla finestra il mare. Non sentii mia madre che si avvicinava, mi bisbigliò: “Non aver paura, Sergio, di queste tue malinconie. Ti daranno molto».
Tornavi sempre con qualche gemma da un incontro con Sergio. Non lasciava nulla al caso, anche nella disposizione dei libri, degli oggetti, dei fogli sulla scrivania: era come se ogni cosa dovesse rispondere alle esigenze di una inquadratura. Per molti mesi, su un tavolino del suo studio, ci fu solo un libro, piccolino, che leggeresti in un’ora, quindi non era lì per essere letto, ma per dire qualcosa. Il titolo era: “La solitudine dell’uomo di genio”.
Poi, fra trasferimento a Milano per lavoro e peregrinazioni terroniche per l’impegno meridionalista, cominciammo a vederci sempre meno, sentirci poco, poi quasi niente. Mi sentivo in colpa. Lo chiamai, gli preannunciai che saremmo andati da lui con mio nipote (diventammo nonni quasi insieme).
Ma quel giorno continuò a restare “domani”. Io non me lo perdono, lui sì, lo so.
Ciao, Sergio. Grazie.
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